Diritto privato, commerciale e amministrativo

08 Febbraio 2022

Validità della clausola sulla commissione di massimo scoperto

È necessario che la clausola, perché sia valida, rivesta i requisiti della determinatezza o determinabilità dell’onere aggiuntivo che la banca imporrà sul cliente.

Come stabilito dalla giurisprudenza intervenuta sul punto, la determinatezza o determinabilità della clausola si configura quando in essa siano previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo e la sua periodicità e tale soluzione è assolutamente condivisibile perché costituisce piena applicazione della norma di cui all’art. 1346 c.c., secondo cui ogni obbligazione contrattuale deve essere determinata o, quanto meno, determinabile e, più nello specifico, dell’art. 117, c. 4 del TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari. Posto che non vi è alcuna definizione normativa, la commissione di massimo scoperto (c.m.s.) è stata diversamente definita o individuata, limitandosi alle 2 accezioni principali e più diffuse (come il corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo, oppure come la remunerazione per il rischio cui la banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato l’utilizzo di una determinata somma, a volta oltre il limite dello stesso affidamento); ancora, manca l’univocità in ordine alla periodicità di calcolo delle c.m.s. che in alcuni casi vengono computate dalla banca addirittura come un accessorio degli interessi, seguendo la medesima periodicità.

In sostanza, il termine “commissione di massimo scoperto” non è affatto riconducibile a un’unica fattispecie giuridica, sicché l’onere di determinatezza della previsione contrattuale delle c.m.s. deve essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, se non una sua definizione contrattuale, per lo meno la specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito), in assenza dei quali non può nemmeno ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo “peso” economico; in mancanza di ciò l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si traduce in una imposizione unilaterale della banca che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale. Laddove poi il conto corrente sia collegato a un’apertura di credito, la c.m.s. non partecipa della natura degli interessi, tanto che non a caso la Banca d’Italia, con circolare 1.10.1996, intervenendo in merito alla rilevazione dei tassi di interesse per l’individuazione della soglia usuraria, ha chiarito che la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del T.E.G., sicché la stessa risulta essere priva di una giustificazione causale, in quanto il corrispettivo della messa a disposizione del cliente di una certa somma è rappresentato dai soli interessi corrispettivi applicati, che dovranno essere calcolati, nella misura convenuta, sulla somma concretamente utilizzata e per tutto il periodo di tempo in cui la somma è stata utilizzata.

La giurisprudenza di merito ha ritenuto che la c.m.s. sia nulla per indeterminatezza quando non viene indicata la base di calcolo; pertanto, una clausola siffatta, del tutto indeterminata e non determinabile, deve intendersi affetta da radicale nullità, rilevabile anche d’ufficio (Tribunale di Monza, 12.12.2006; Tribunale di Milano, 4.07.2002).

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