ZES unica: agevolazioni per attrezzature installate su autocarri

La questione della qualificazione fiscale dei beni strumentali complessi costituiti da attrezzature installate su autocarri rappresenta un tema di significativa rilevanza pratica, soprattutto nel contesto delle agevolazioni per gli investimenti nelle zone economiche speciali (Zes). L’ambiguità sorge facilmente allorché il contribuente intende beneficiare dei regimi incentivati pur acquisendo composti complessi, dove la distinzione tra il mezzo di trasporto (che singolarmente non rientrerebbe nell’agevolazione) e l’apparato funzionale risulta tutt’altro che nitida.

Le agevolazioni correlate agli investimenti nella Zes Unica del Mezzogiorno prevedono l’accesso al credito d’imposta peri beni strumentali nuovi, quali immobili, impianti, macchinari e attrezzature. Per essere ammissibili al beneficio fiscale previsto sottoforma di credito di imposta, occorre che tali beni siano classificati correttamente secondo i principi contabili vigenti nelle voci B.II.1, B.II.2 e B.II.3 dello schema di bilancio la collocazione appropriata per impianti e macchinari. Sono esclusi i beni classificati nella voce nelle voci B.II.4.

Un decisivo contributo interpretativo proviene dalla giurisprudenza tributaria di merito. La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Regione Campania, con sentenza n. 7086/5/2023, ha esaminato una fattispecie concernente il riconoscimento del credito d’imposta per investimenti nel Mezzogiorno in relazione ad apparecchiature (nello specifico, una betonpompa e un caricatore telescopico) montate su autocarri. I magistrati hanno chiarito che il carattere di “macchinario” non derivava dalla mera installazione fisica su un mezzo mobile, bensì dalla natura intrinseca dell’apparato e dalla sua destinazione operativa. Il complesso organico e funzionale, per usare la terminologia adoperata, deve essere valutato in riferimento alla sua capacità di realizzare specifiche produzioni e cicli lavorativi. La betonpompa, per così dire, conserva la sua attitudine produttiva a prescindere da dove sia collocata; il trasporto rappresenta, nella logica della sentenza, una conseguenza ancillare della struttura costruttiva.

L’elemento cardine della lettura giurisprudenziale riposa sulla prevalenza della destinazione funzionale rispetto agli aspetti meramente locativi o strutturali. Quando un’attrezzatura esercita primariamente funzioni produttive e lavorative, il fatto che essa sia montata su un autoveicolo non altera la natura del bene né ne compromette la maturazione del beneficio. Si consideri, ad esempio, l’autobetoniera: il nucleo centrale dell’investimento è costituito dall’impianto di pompaggio e dal tamburo rotante, destinati alla distribuzione del calcestruzzo. L’autotelaio funge da base portante e da mezzo di trasporto, ma la funzione preponderante rimane quella operativa. Analogamente, una piattaforma aerea (o piattaforma di lavoro elevatrice) montata su autocarro mantiene la propria qualifica di attrezzatura strumentale: la destinazione è lo svolgimento di attività in quota, non il mero trasferimento da un luogo all’altro.

Nella prassi, occorre veramente distinguere diverse situazioni. L’autobetoniera rappresenta il caso paradigmatico di equipaggiamento polivalente dove la funzione lavorativa predomina nitidamente. Ma non dissimilmente, le piattaforme telescopiche, le autogrù, gli impianti di perforazione su chassis mobile, le autobotti per il trasporto e la distribuzione di liquidi in contesti operativi specifici, dove tutte queste categorie mantengono attitudine agevolabile dato che l’elemento funzionale-operativo rimane centrale nella loro logica costruttiva. Diverso è il caso dell’automezzo meramente ausiliario, dove la prevalenza del trasporto risulta incontestabile. Un furgone attrezzato come magazzino mobile, per intendersi, non acquisisce natura di macchinario strumentale al processo produttivo propriamente detto; rimane strumento di logistica e distribuzione, categorizzazione che lo pone al di fuori dei beni agevolabili secondo i criteri dell’agevolazione ZES per investimenti produttivi.

Bancarotta per distrazione: confermata l’autonomia del reato

In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, ai fini della sussistenza del reato non è necessario che sussista un nesso causale tra l’atto di distrazione e il successivo fallimento, né è richiesta la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, essendo sufficiente la volontà consapevole di destinare risorse sociali a fini estranei alla funzione di garanzia per i creditori. Pertanto, è penalmente rilevante anche la distrazione compiuta in epoca non sospetta e formalmente lecita, se collocata in un piano fraudolento, in quanto idonea a esporre a un pericolo concreto il patrimonio aziendale. Lo ha precisato la Cassazione penale nella sentenza 6.11.2025, n. 36278.

La questione analizzata ha riguardato un complesso caso di bancarotta fraudolenta per distrazione in cui è stata confermata la responsabilità penale degli amministratori di Alfa Spa, società dichiarata fallita nel febbraio 2011, per aver distratto somme ingenti attraverso un articolato sistema di interposizione fittizia e false fatturazioni. Gli imputati (componenti del consiglio di amministrazione di Alfa e, di fatto, anche di Beta, società svizzera a loro riconducibile) avevano orchestrato un sistema di frode mediante il quale, attraverso la rappresentanza fiscale italiana di Beta, venivano emesse fatture soggettivamente inesistenti per la cessione di merce proveniente da altre società del gruppo.

Acconto Tfr: può essere chiesto dal dipendente?

Il contratto di lavoro subordinato si qualifica come un rapporto a prestazioni corrispettive dove il dipendente è tenuto ad assicurare la prestazione manuale e / o intellettuale propria della mansione assegnata e il datore di lavoro, a fronte dell’attività svolta, è obbligato a liquidare la retribuzione spettante in ragione della normativa vigente e della contrattazione individuale e collettiva applicata.

Tra gli elementi retributivi figura il trattamento di fine rapporto (Tfr) che, seppur maturando in ragione dell’attività svolta dal dipendente, non è liquidato, a differenza di altre somme, nel cedolino paga del mese di competenza della prestazione lavorativa. Trattasi, in questo caso, di retribuzione differita, dal momento che il Tfr diviene esigibile dal dipendente esclusivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, quale che ne sia la causa.

La distanza temporale che può intercorrere tra maturazione del Tfr e sua liquidazione è stata comunque presa in considerazione dalla normativa (art. 2120 c.c.), la quale consente l’anticipazione di una quota-parte della somma in costanza di rapporto. Al contrario, l’istituto dell’acconto non beneficia della stessa regolamentazione e, nel momento in cui il dipendente lo richiede, è opportuno chiedersi se ed in quale misura l’azienda può acconsentire alla richiesta. Analizziamo la questione in dettaglio.

Cos’è l’acconto Tfr? Nel momento in cui il rapporto di lavoro si interrompe il Tfr maturato diventa una somma esigibile dal dipendente, nel rispetto della scadenza temporale eventualmente fissata dalla contrattazione collettiva.

Se gli accordi non definiscono alcuna scadenza il dipendente può esigere immediatamente l’importo totale.

In deroga a quanto appena descritto, datore di lavoro e dipendente possono accordarsi per liquidare le somme in una o più rate di acconto, con successivo saldo finale.

Quali differenze tra anticipo Tfr e acconto? Anticipo e acconto del Tfr rappresentano entrambi 2 fattispecie derogatorie rispetto alla liquidazione delle somme in un’unica soluzione alla cessazione del contratto.

Le ipotesi in argomento sono tuttavia diverse e non devono essere confuse. Mentre l’anticipazione consiste nell’erogazione di una quota-parte del Tfr, in costanza di rapporto, l’acconto prevede la liquidazione in una o più rate (con saldo finale) esclusivamente nel momento in cui il credito diventa esigibile dal lavoratore, nello specifico una volta interrottosi il contratto.

È altresì opportuno precisare che, mentre l’anticipazione, nell’ottica di preservare la natura del Tfr quale somma spettante alla cessazione del contratto, è limitata a norma di legge (art. 2120 c.c.) tanto nelle ipotesi di liquidazione che nell’importo, l’acconto è disciplinato da un accordo individuale tra azienda e dipendente.

Il dipendente può chiedere l’acconto Tfr? Nel momento in cui si interrompe il contratto e il Tfr diventa esigibile il dipendente può chiedere, in forma scritta, al datore di lavoro il versamento delle somme in una o più rate (cui si aggiunge il saldo finale). Nella missiva il lavoratore interessato indica:

– il numero di rate di acconto;

– la percentuale (rispetto all’importo totale) di ciascuna rata di acconto;

– le scadenze di liquidazione delle singole rate di acconto e del saldo.

Alla richiesta del dipendente (trasmessa, ad esempio, con raccomandata a mani del datore di lavoro o del responsabile diretto) l’azienda è parimenti tenuta a fornire risposta scritta.

Cosa deve fare il datore di lavoro? Il datore di lavoro che acconsente alla richiesta del dipendente di liquidare uno o più acconti Tfr è tenuto a:

– elaborare il cedolino paga di liquidazione del Tfr, assoggettandone l’importo a tassazione separata;

– riconoscere le somme dovute a titolo di interessi e rivalutazione monetaria.

Resto al Sud non basta per l’esenzione Iva

Con la risposta all’interpello 6.11.2025, n. 287 l’Agenzia delle Entrate ha escluso che l’agevolazione “Resto al Sud” valga, di per sé, quale titolo per l’esenzione Iva dei corsi di lingua ai sensi dell’art. 10, c. 1, n. 20 D.P.R. 633/1972. La disciplina interna subordina il beneficio alla compresenza del requisito oggettivo (natura educativa/didattica) e del requisito soggettivo (prestazioni rese da istituti o scuole riconosciuti da pubbliche amministrazioni, ovvero riconoscimento per atto concludente su progetti approvati e finanziati).

La prassi precisa che il riconoscimento può risultare da atti formali o da “atto concludente” quando un ente pubblico approva e finanzia la specifica attività formativa, esercitando controllo e vigilanza sugli obiettivi educativi di interesse generale; l’esenzione rimane confinata alle sole prestazioni specificamente approvate/finanziate e non si estende alla complessiva attività del prestatore (circ. Ag. Entrate 18.03.2008, n. 22/E).

Quanto al secondo requisito, l’indirizzo di prassi afferma che l’esenzione spetta non a chiunque svolga attività didattiche, ma soltanto ai soggetti che l’ordinamento pubblico qualifica come idonei, in ragione di requisiti quali la professionalità del corpo docente e l’adeguatezza di strutture e materiali, così da garantire prestazioni con finalità comparabili a quelle rese dagli “organismi di diritto pubblico” (ris. Ag. Entrate n. 134/E/2005).

Nuove regole per la dilazione dei debiti contributivi

È stato completato l’iter di approvazione del decreto ministeriale che dà attuazione alle disposizioni previste dalla L. 203/2024, il cosiddetto Collegato lavoro. Il provvedimento, sottoscritto congiuntamente dal Ministro del Lavoro e dal Ministro dell’Economia, introduce importante novità nel sistema di rateizzazione delle posizioni debitorie verso gli enti previdenziali e assistenziali.

Dal 1.01.2025, l’art. 23 L. 203/2024 ha introdotto una disciplina speciale per Inps e Inail, consentendo una maggiore flessibilità nella gestione dei debiti contributivi. La normativa si applica esclusivamente alle posizioni non ancora trasferite agli agenti della riscossione, ampliando così le possibilità di dilazione rispetto al passato. Il decreto interministeriale, dopo aver ottenuto il visto della Ragioneria generale dello Stato, stabilisce i parametri per la concessione della rateizzazione, differenziando le modalità in base all’entità del debito e alla situazione del debitore.

In particolare, la nuova disciplina prevede 2 fasce distinte: per le esposizioni debitorie fino a 500.000 euro, è possibile ottenere una dilazione fino a 36 rate mensili; qualora l’importo dovuto superi tale soglia, il piano di rateizzazione può estendersi fino a 60 mensilità. Si tratta di un ampliamento notevole rispetto alle consuete 24 rate previste dalla normativa ordinaria.

Il curatore deve smaltire i rifiuti speciali

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che: “gli atti di dismissione, adottati ai sensi degli artt. 42, c. 3 e 104-ter, c. 8 R.D. 267/1942, vanno qualificati come atti privatistici, che non liberano la Curatela fallimentare dalle responsabilità di diritto pubblico per i danni e/o i pericoli all’ambiente, specificando che, seguendo la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in contraddizione con il principio chi inquina paga” (TAR Basilicata, Sez. I, 14.02.2024, n. 83).

Secondo la pronuncia del CGA Regione Siciliana (sent. 1.02.2024, n. 77) “deve affermarsi il principio di diritto secondo cui la scelta della Curatela di non procedere alle attività di liquidazione di un bene non equivale a un atto di abbandono del bene stesso, non potendo produrre l’effetto di estrometterlo dalla sfera giuridica del debitore che ne sia titolare.

La decisione, dunque, di non includere il bene nell’ambito del programma di liquidazione non implica per la Curatela fallimentare alcun esonero di responsabilità per i danni che il bene stesso possa cagionare a terzi ai sensi dell’art. 2051 c.c. Di conseguenza, nel caso in esame, la scelta di non procedere alla vendita del fondo nell’ambito della procedura fallimentare in ragione della dichiarata antieconomicità che implicherebbe la relativa attività di liquidazione non esonera la Curatela dalla responsabilità civile per i danni dipendenti dalla cosa o dalla sua omessa custodia a terzi sino a quando la procedura fallimentare sarà pendente, non rispondendo, infatti, il Curatore soltanto per i fatti successivi alla chiusura del fallimento”.

Responsabile dei lavori e committente: garanzie, deleghe e limiti

Con la sentenza 1.09.2025 n. 30039, la IV Sezione Penale della Cassazione è tornata ad affrontare un tema centrale nella disciplina prevenzionistica dei cantieri temporanei o mobili: il rapporto tra il committente e il responsabile dei lavori, la natura dell’incarico conferito e i criteri per attribuire o escludere la responsabilità penale in caso di infortunio.

Secondo l’impostazione ormai consolidata della giurisprudenza, il committente, ovvero il soggetto per conto del quale l’opera è realizzata, è titolare ex lege di una posizione di garanzia, concorrente e coordinata con quelle degli altri soggetti del sistema di sicurezza (datore di lavoro, dirigenti, preposti). Tale posizione può essere trasferita, nei limiti e con i presupposti previsti dall’art. 93 D.Lgs. 81/2008, al responsabile dei lavori. Ma non basta una nomina formale: serve una delega effettiva, tracciabile e sostanziale, con specifica attribuzione di poteri decisionali, gestionali e di spesa. È quanto ribadito dalla Suprema Corte, che ha qualificato il responsabile dei lavori come una figura di “alter ego del committente”, non un semplice supporto tecnico. Egli assume una posizione di garanzia derivata, autonoma e concreta, che lo obbliga non solo nella fase di progettazione (ad es. verifica dei piani di sicurezza), ma anche durante l’esecuzione, attraverso attività di sorveglianza e controllo.

Inail: riduzione contributi agricoltura 2026 fissata al 13,02%

Con la circolare 28.10.2025, n. 53 l’Inail ha fornito le prime istruzioni operative riguardanti la riduzione dei premi assicurativi per l’anno 2026 legati alla gestione agricoltura.

L’intervento riguarda i contributi destinati all’assicurazione contro infortuni sul lavoro e malattie professionali e rientra nel meccanismo di riduzione previsto fino al completamento della revisione tariffaria dei premi.

La misura trae origine dall’art. 1, c. 128 L. 147/2013, in vigore dal 1.01.2014, che ha introdotto una riduzione percentuale dei premi e contributi dovuti nelle more dell’aggiornamento delle tariffe assicurative.

Ogni anno la percentuale di riduzione viene definita da un decreto interministeriale emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, su proposta dell’Inail, tenendo conto dell’andamento infortunistico nazionale e del limite di spesa, fissato dal 2016, a 1.200 milioni di euro.

Il D.M. 30.09.2025 ha stabilito la riduzione per il 2026 nella misura del 13,02%, inferiore rispetto al 14,80% riconosciuto l’anno precedente.

Il forfetario non sfugge alla tassa etica

L’art. 1, c. 466 L. 266/2005 prevede l’applicazione di una addizionale alle imposte sul reddito fissata nella misura del 25%, la cd. “tassa etica”. Il presupposto che determina l’applicazione del tributo è il conseguimento di ricavi o compensi derivanti da attività specifiche: la produzione, distribuzione, vendita e rappresentazione di materiale esplicito per adulti e di contenuti che istigano ad atti cruenti, nonché le trasmissioni volte a sollecitare la credulità popolare (cfr. D.P.C.M. 13.03.2009). L’addizionale si applica alla quota del reddito complessivo netto proporzionalmente corrispondente ai ricavi o compensi derivanti da tali attività, rispetto all’ammontare totale dei ricavi o compensi; i costi promiscui sono deducibili in base al rapporto tra l’ammontare dei ricavi specifici e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi.

Per lungo tempo, è rimasta una significativa incertezza interpretativa riguardo l’applicabilità di tale addizionale ai contribuenti che adottano il regime forfetario (art. 1, cc. 54-89 L. 190/2014). Il dubbio nasceva dalla difficoltà di conciliare il calcolo della base imponibile della tassa etica, normativamente basato sul “reddito complessivo netto” (un concetto analitico), con il meccanismo del regime forfetario, che determina il reddito applicando un coefficiente di redditività ai ricavi o compensi percepiti, escludendo la deduzione analitica dei costi. L’Istante dell’interpello n. 285/2025 aveva infatti sollevato la tesi di una vacatio legis, sostenendo l’oggettiva impossibilità di calcolo e versamento, facendo altresì notare come la prassi istitutiva dei codici tributo (risoluzione n. 107/E/2009) menzionasse esclusivamente soggetti Irpef e Ires, apparentemente escludendo i regimi agevolati.

Contributi dovuti anche in caso di sospensione concordata

Il caso trae origine da una vertenza tra una società cooperativa e l’Inps relativa al versamento dei contributi per i periodi di assenza non retribuita concessi ai soci lavoratori sotto forma di permessi. La cooperativa sosteneva che, nei giorni in cui non vi era attività né retribuzione, mancasse la base imponibile per la contribuzione. Il Tribunale di Milano aveva respinto la richiesta dell’azienda, ritenendo dovuti i contributi, mentre la Corte d’appello aveva parzialmente confermato la decisione, richiamando l’art. 1 D.L. 338/1989, convertito nella L. 389/1989. Tale norma impone il rispetto di un minimale contributivo anche nei casi in cui la prestazione sia sospesa, salvo specifiche previsioni contrattuali o legislative.

Ricorso in Cassazione – La cooperativa ha impugnato la sentenza davanti alla Suprema Corte, denunciando la violazione dell’art. 1 D.L. 338/1989 e dell’art. 2094 c.c. Secondo la ricorrente, la contribuzione avrebbe dovuto essere esclusa nei periodi di sospensione concordata della prestazione, in assenza di retribuzione e senza imposizione unilaterale da parte del datore. Il ricorso è stato esaminato dalla sezione lavoro della Cassazione, che ha confermato la posizione dell’Inps e respinto integralmente le argomentazioni della società.

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