Nel nuovo art. 177-bis (rubricato operazioni straordinarie e attività professionali) viene previsto il regime fiscale neutro per il trasferimento per causa di morte o per atto gratuito di un complesso unitario di attività materiali e immateriali, inclusa la clientela, nonché di passività, organizzato per l’esercizio dell’attività artistica o professionale svolta in forma individuale.
La norma ricalca nella sostanza disciplinare l’art. 58, c. 1, del Tuir, a mente del quale il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda. Tuttavia, mentre tale ultima fattispecie viene legislativamente completata sul piano delle possibili complessive dinamiche impositive dall’art. 67, c. 1, lett. h-bis) che cataloga come reddito diverso “le plusvalenze realizzate in caso di successiva cessione anche parziale delle aziende acquisite ai sensi dell’art. 58 Tuir”, tale fattispecie imponibile non viene introdotta per i compendi patrimoniali professionali di cui all’art. 177-bis.
Evidentemente il legislatore presume che nel caso, ad esempio, di trasferimento mortis causa dello studio professionale, gli eredi proseguano l’attività del de cuius, subentrando, secondo le ormai collaudate prerogative della continuità fiscale, nei valori fiscalmente riconosciuti di ogni singolo elemento dell’aggregato patrimoniale ricevuto. Tuttavia, tale presunzione non appare ritraibile da alcuna convergenza di specifici elementi indiziari, per cui potrebbe anche essere che gli eredi, magari per la mancanza delle necessarie abilitazioni professionali, decidano di vendere l’unitario compendio patrimoniale organizzato ereditato.
Ma potrebbe anche verificarsi che non tutti gli eredi manifestino l’intendimento a proseguire l’attività professionale, preferendo venire liquidati del loro diritto ereditario. In tali casi il vuoto normativo si rivelerebbe particolarmente insidioso per l’Erario, vertendo la materia in chiaro regime di riserva di legge (art. 23 Cost.) con vincolati spazi consentiti all’opera ermeneutica dell’interprete.
Anche nel caso di trasferimento mortis causa dell’azienda, l’art. 58, c. 1 del Tuir nella sua attuale versione normativa non assume alla base del regime fiscale neutro il vincolo della prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, ma in caso di mancanza di continuità di intenti imprenditoriali da parte dell’avente causa, il legislatore ha ritenuto di chiudere il ciclo fiscale dei beni d’impresa con la previsione dell’art. 67, c. 1, lett. h-bis), che testualmente prevede il realizzo di plusvalenze con i medesimi criteri di calcolo indicati per il reddito d’impresa (art. 86 del Tuir) in caso di cessione anche parziale dell’azienda del dante causa.
La versione letterale dell’art. 67, c. 1, lett. h-bis) è anche nella condizione di far fronte alle varie dinamiche fiscali che, in caso di un’azienda caduta in successione, possono interagire tra la scelta di taluni eredi di non voler proseguire l’impresa e i valori fiscalmente riconosciuti degli elementi dell’azienda acquisita mortis causa. La fattispecie verrebbe a connotarsi alla stregua di una cessione parziale di azienda, dal momento che tale locuzione non equivale a ramo d’azienda inteso come nucleo sinergico di beni ausiliario a un processo produttivo, ma in senso decisamente atecnico di qualsiasi elemento costitutivo dell’azienda caduta in successione. A fronte di tale manifestazione di reddito diverso nei confronti dell’erede liquidato, l’azienda del de cuius implementa il suo valore fiscalmente riconosciuto per un ammontare esattamente corrispondente al plusvalore tassato, ricongiungendolo ai singoli beni plusvalenti, incluso l’avviamento.
Nel caso di successione ereditaria dello studio professionale (ma con identità di effetti anche nel caso di acquisto a titolo gratuito dello studio professionale/artistico) manca la previsione di ogni aggiustamento normativo in ordine ai casi sopra esaminati, con la prevedibile possibilità che si possano manifestare salti d’imposta, i quali, in punto di diritto, non possono essere salvaguardati con il ricorso all’interpretazione analogica. L’unica soluzione appropriata è procedere legislativamente con l’aggiunta nell’ambito dei redditi diversi di un’ulteriore lettera h-ter), nella sostanza ripetitiva della lett. h-bis), solo adattata ai professionisti/artisti.
Sembra assai improbabile che la Banca d’Italia e l’Istat si siano messe d’accordo per allargare a dismisura il concetto di diseguaglianza.
La prima è intervenuta per rilevare la disparità che la nuova Irpef introdurrà nei benefici annunciati, che equivarrà a un premio ai redditi più alti e nulla, o quasi, alle famiglie a basso reddito. L’Istat non si limita a osservare che oltre l’85% delle risorse è destinato ai 2/5 più ricchi della distribuzione del reddito, ma indirizza l’attenzione su un altro tipo di diseguaglianza. Nel 2024 quasi 6 milioni di persone, circa il 10% della popolazione, hanno rinunciato a cure mediche o a visite per le liste d’attesa troppo lunghe, costi insostenibili, o mancanza di strutture: 1,3 milioni in più rispetto all’anno precedente.
La convergenza di queste osservazioni, rafforzate dalla reputazione dei due istituti, dovrebbe fare saltare sulla sedia, o sulla poltrona, chi si sta adoperando a favorire il benessere degli italiani e a introdurre elementi di riflessione in chi ha a cuore l’ideale di giustizia.
Mi capita, a volte, di passare per i mercati settimanali di paesi e di piccole città e vedo non solo una popolazione diversa da quella di alcuni anni fa, naturalmente le più varie etnie, ma anche il prevalere di banchi e banchetti con prodotti di scarsa qualità e un affollarsi di persone in cerca di occasioni oppure rovistare tra capi di abbigliamento al costo di un euro. E non sono solo immigrati, ma vedo indaffarati nella ricerca anche molti italiani che hanno abbandonato il cachemire.
La fase di pianificazione che, per i bilanci con esercizio in chiusura al 31.12.2025, viene svolta solitamente tra ottobre e dicembre 2025, comprende tutte quelle attività destinate all’individuazione e valutazione dei rischi, a livello di bilancio e di singola asserzione di voce di bilancio, che formeranno la base delle successive risposte del revisore attraverso le diverse e articolate procedure di revisione che verranno svolte.
È quindi questo il momento decisivo in cui si andrà a definire il perimetro delle attività da implementare durante il processo di revisione, individuando le aree maggiormente meritevoli di attenzione, fissando parametri quantitativi che influenzeranno la determinazione dell’estensione delle procedure di validità, programmando le tempistiche di svolgimento delle varie fasi operative e di supervisione, nonché la ripartizione del lavoro all’interno del team di revisione, arrivando all’elaborazione di una strategia da perseguire che verrà declinata in specifici piani di revisione.
Le attività che il revisore svolge in questa fase sono:
– comprensione dell’impresa e del contesto in cui opera, in modo da poter identificare e valutare i rischi di errori significativi nel bilancio e stabilire le procedure di revisione in risposta ai rischi identificati e valutati. Le informazioni da acquisire in tale fase, specialmente in occasione del primo anno di incarico, includono, ad esempio: i principali prodotti e servizi dell’impresa, la sua struttura legale, gli azionisti e le parti correlate, le condizioni del settore economico di riferimento che influenzano l’attività della società, gli indicatori finanziari, economici e patrimoniali, eventuali cambiamenti significativi nella struttura organizzativa, rettifiche contabili di entità significativa già rilevate o previste, il livello generale di competenza del personale direttivo;
– valutare i punti di forza e di debolezza del sistema di controllo interno, attraverso appositi strumenti operativi, quali diagrammi di flusso, descrizioni narrative e questionari. Le informazioni acquisite dovranno essere testate attraverso procedure di conformità, ossia verifiche a campione volte a verificare l’effettiva presenza ed efficacia dei controlli previsti;
– effettuare procedure di analisi comparativa che, tramite l’esame degli andamenti di dati finanziari, patrimoniali ed economici e di indici sintetici, servono a identificare l’esistenza di operazioni o eventi inusuali da tener poi presente nelle successive fasi del lavoro di revisione;
– definire il livello di materialità accettabile al fine di rilevare errori quantitativamente e qualitativamente significativi.
Le informazioni raccolte e le valutazioni effettuate dal revisore durante l’attività di pianificazione confluiscono nel piano generale della revisione, con il quale si definisce l’ampiezza e le modalità di svolgimento delle procedure di revisione. La forma e il contenuto di tale documento dipendono dalle dimensioni della società. Per le imprese di minori dimensioni si può, ad esempio, predisporre un breve memo aggiornato e modificato sulla base delle discussioni con il proprietario-amministratore della società.
Dopo aver definito la strategia, essa deve essere declinata in un piano di revisione dettagliato che include le indicazioni sulla natura ed estensione delle procedure di revisione che devono essere svolte per le singole voci del bilancio per ottenere sufficienti ed appropriati elementi probativi tali da ridurre il rischio di revisione a un livello accettabilmente basso.
L’antieconomicità non è solo un segnale di difficoltà economica, ma si configura come un grave indizio fiscale. Se l’impresa opera cronicamente in perdita, senza che vi siano motivazioni oggettive, straordinarie o strategiche (che devono essere specificamente documentate e fornite in sede di contraddittorio), essa espone il contribuente al rischio di rettifica dei redditi con un metodo induttivo che può prescindere dai dati nominali di bilancio, basandosi su parametri esterni o su incongruenze interne.
La controversia, che ha dato origine all’ordinanza 26182/2025, verteva, infatti, sulla liceità dell’accertamento analitico-induttivo basato non solo sulla sproporzione tra costi e ricavi, ma anche sulle discordanze tra le ricevute fiscali emesse e le fatture di acquisto o le rimanenze, elementi che aggravavano l’anomalia economica. La Corte di Cassazione ha ribadito così che l’antieconomicità dell’attività è un indizio “grave e preciso” che legittima l’intervento dell’Amministrazione Finanziaria.
La pronuncia si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale relativo all’accertamento dei redditi d’impresa con metodo analitico-induttivo, disciplinato dall’art. 39, c. 1, lett. d) D.P.R. 600/1973. In questo contesto giurisprudenziale per antieconomicità si definisce la sproporzione cronica tra costi e ricavi che porta l’impresa a operare in perdita senza che vi siano giustificazioni plausibili.
La prassi professionale è costellata di casi in cui la permanenza in bilancio di debiti di fornitura “storici”, i cui creditori siano stati nel frattempo cancellati dal Registro delle Imprese, diventa oggetto di contenzioso con l’Agenzia delle Entrate. L’Ufficio, infatti, tende a presumere automaticamente l’estinzione del debito a seguito della cancellazione dell’ente creditore, qualificando l’importo come sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88 del Tuir. Tuttavia, l’ordinanza 4.11.2025, n. 29086 offre al professionista uno strumento decisivo di difesa e, soprattutto, di prevenzione, ribadendo in termini inequivocabili il principio di continuità giuridica stabilito dalle Sezioni Unite.
Principio di continuità e trasferimento ai soci – La Corte si è trovata a sindacare la legittimità di un avviso di accertamento (Irpef/Irap 2013) emesso nei confronti di una ditta individuale, in cui la C.T.R. aveva ritenuto legittimo il recupero fiscale di un debito verso una S.r.l. estinta, sulla base della sola cancellazione di quest’ultima dal Registro delle Imprese. Tale approccio è stato categoricamente disatteso dalla Suprema Corte, che ha accolto il ricorso del contribuente limitatamente a questo punto.
Il principio cardine, già affermato dalle Sezioni Unite (sent. n. 19750/2025), è cristallino: l’estinzione della società conseguente alla cancellazione non comporta affatto l’estinzione automatica dei relativi crediti. Al contrario, questi crediti si trasferiscono in capo ai soci, secondo il meccanismo della successione.
Il meccanismo del pignoramento semplificato previsto dall’art. 72-bis D.P.R. 602/1973 continua a generare dubbi interpretativi, soprattutto quando il terzo non esegue il pagamento entro i termini fissati dall’Agente della riscossione. È un tema che continua a emergere nella prassi degli studi professionali e che la Corte di Cassazione ha affrontato ancora una volta con l’ordinanza 16.11.2025, n. 30214. Vale la pena ricostruire in modo ordinato il quadro normativo, perché il sistema mostra più sfumature di quanto possa sembrare.
Il pignoramento diretto sulle somme dovute da un terzo consente all’Agente di riscossione di evitare la citazione prevista dall’art. 543 c.p.c., sostituendola con un ordine immediato di pagamento nelle proprie mani. È un modello che può riguardare crediti già scaduti oppure somme che maturano entro i 60 giorni dalla notifica. In teoria la procedura appare rapida e lineare, ma in realtà vive dell’effettiva collaborazione del terzo. Se quest’ultimo non adempie, anche solo per ragioni tecniche o per incertezza sulla propria posizione, l’atto notificato ex art. 72-bis perde efficacia operativa.
Si consideri che la giurisprudenza ha spesso qualificato questo atto come una forma speciale di pignoramento presso terzi, con la conseguenza che esso deve essere notificato anche al debitore esecutato. Si tratta di un elemento essenziale per garantire il diritto di difesa e la piena conoscibilità dell’azione esecutiva.
Con l’ordinanza n. 29741/2025, la Corte Suprema di Cassazione torna a esaminare il tema dell’eccedenza retributiva rispetto ai minimi contrattuali. Il provvedimento conferma che il cosiddetto superminimo, ossia la parte di stipendio pattuita individualmente in aggiunta ai livelli tabellari del contratto collettivo, è soggetto al principio dell’assorbimento. Quando il lavoratore ottiene una qualifica superiore con conseguente aumento dei minimi, tale incremento può inglobare, in tutto o in parte, la somma precedentemente percepita come superminimo. Solo un accordo esplicito o una disposizione del Ccnl può escludere questa regola e garantire la conservazione autonoma dell’emolumento. Il pronunciamento si distingue per la puntualità con cui chiarisce le condizioni probatorie necessarie a mantenere il beneficio, richiamando l’attenzione su come le parti contrattuali debbano formalizzare con precisione i termini della retribuzione aggiuntiva.
Onere della prova e chiarezza contrattuale – Un aspetto centrale dell’ordinanza riguarda la ripartizione dell’onere della prova. La Corte precisa che spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza di un titolo che giustifichi il mantenimento del superminimo come voce non assorbibile. Tale prova può derivare da un contratto individuale, da una clausola scritta o da comunicazioni aziendali che attestino la volontà del datore di riconoscere una componente retributiva distinta e permanente. In assenza di tale documentazione, l’eccedenza retributiva è considerata assorbibile nei successivi miglioramenti derivanti da avanzamenti di carriera o rinnovi contrattuali collettivi. Il datore di lavoro, dunque, non ha l’obbligo di dimostrare l’assorbimento, poiché esso costituisce la regola generale.
Nei giorni scorsi, presso le commissioni Bilancio di Camera e Senato, si sono tenute le audizioni delle parti sociali, dei sindacati, delle associazioni di categoria, dei vari stakeholder nell’ambito dell’esame del disegno di legge, varato dal Governo, sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno 2026 e sul bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028.
Un giudizio sostanzialmente positivo è stato espresso dalle diverse organizzazioni agricole sui contenuti della proposta di legge (credito d’imposta, nuova Sabatini, sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, rinvio per la “Plastic tax” e per la “Sugar tax”, incremento delle risorse per gli Istituti zooprofilattici sperimentali); un giudizio che, però, è stato accompagnato da una serie di rilievi che hanno evidenziato lacune che si chiede vengano colmate.
Innanzitutto, è stato sollecitato un rafforzamento delle risorse destinate al credito d’imposta 4.0 per l’anno 2026, visto che quelle stanziate vengono ritenute insufficienti a sostenere un numero adeguato di investimenti; al tempo stesso, è stato suggerito di estendere la misura anche alle attività agricole connesse, attualmente escluse.
In tema di accertamento tributario nei confronti dei lavoratori autonomi e dei professionisti, la presunzione legale prevista dall’art. 32, c. 1, n. 2 D.P.R. 600/1973 continua ad applicarsi nei confronti dei versamenti effettuati sui conti correnti, che, se non giustificati, sono considerati ricavi non dichiarati. Ne consegue la legittimità dell’accertamento basato su indagini bancarie anche nei confronti dei professionisti. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 11.11.2025, n. 29739.
Nel caso esaminato l’Agenzia delle Entrate notificava a un lavoratore autonomo un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2011, recuperando a tassazione somme ai fini Irpef, Irap e Iva sulla base di movimentazioni bancarie (versamenti e prelievi) ritenute non giustificate.
Nel primo grado di giudizio, la C.T.P. confermava l’accertamento per i versamenti, mentre annullava la ripresa relativa ai prelievi, ritenendo applicabile la presunzione soltanto ai primi. In sede d’appello, in riforma parziale della decisione di primo grado, la C.T.R. annullava integralmente l’accertamento, escludendo la possibilità di applicare la presunzione legale prevista dall’art. 32 D.P.R. 600/1973 anche ai versamenti, interpretando in modo estensivo la sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014 e richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 23041/2015).
L’art. 86 del Tuir disciplina il trattamento delle plusvalenze patrimoniali. Al c. 2, dispone che la plusvalenza è costituita dalla differenza tra il corrispettivo (o l’indennizzo) conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato. L’ultimo periodo del c. 2 rappresenta un’ipotesi di neutralità nella parte in cui stabilisce che, qualora il corrispettivo della cessione sia costituito esclusivamente da beni ammortizzabili e questi vengono iscritti in bilancio allo stesso valore al quale vi erano iscritti i beni ceduti, si considera plusvalenza soltanto il conguaglio in denaro eventualmente pattuito.
Quindi, ad esempio, nel caso di una permuta in cui i valori attributi ai 2 beni oggetto di scambio siano mantenuti in continuità con i valori contabili, nessuna plusvalenza emerge. Il caso della permuta è molto frequente nelle operazioni immobiliari, soprattutto con la formula della permuta di cosa presente contro cosa futura. L’Agenzia delle Entrate, con la risposta all’interpello n. 283/2025, ha proprio analizzato un caso del genere. Nell’interpello presentato da una società proprietaria di un terreno adibito a parcheggio viene rappresentata la volontà di cessione di tale bene a terzi, ricevendo come corrispettivo alcuni posti auto da realizzare su tale area, oltre ad un conguaglio in denaro.
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