Tfr, quali elementi entrano nel calcolo?

L’ordinanza della Cassazione 9.09.2025, n. 24849 ha qualificato come elemento retributivo il benefit dell’alloggio assegnato nei periodi di permanenza all’estero del lavoratore. Gli Ermellini hanno escluso la natura meramente riparatoria del benefit, che lo avrebbe qualificato come un rimborso spese conseguente a un onere che il dipendente ha sostenuto nell’esclusivo interesse del datore di lavoro.

L’operazione di qualificare il benefit e, in generale, le somme riconosciute al dipendente come retribuzione o, al contrario, rimborso spese, ha conseguenze dirette sul calcolo del Tfr.

Analizziamo la questione in dettaglio.

Retribuzione utile per il calcolo del Tfr – La quota di trattamento di fine rapporto che il dipendente matura (art. 2120 c.c.) è il risultato della seguente operazione: retribuzione utile / 13,5 (coefficiente fisso) = Tfr lordo.

Nel paniere della retribuzione di riferimento rientrano le somme di competenza dell’intera annualità, da intendersi come quelle esposte nei cedolini paga relativi alle mensilità da gennaio a dicembre.

La retribuzione utile, a norma dell’art. 2120, c. 2 c.c. è rappresentata da tutti i compensi liquidi ed esigibili, anche se erogati successivamente per qualsiasi ragione, e costituita, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, da tutte le somme lorde corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura.

I contratti collettivi possono tuttavia derogare alle regole citate, ad esempio escludendo determinate voci retributive dal calcolo del Tfr. Come precisa il Ministero del Lavoro, con la risposta all’interpello 3.10.2008, n. 43, se il contratto collettivo applicato in azienda o stipulato dall’organizzazione sindacale cui il datore di lavoro è iscritto specifica chiaramente quali elementi devono essere computati (e/o quali devono essere esclusi) il datore di lavoro deve rispettare tali criteri.

In definitiva, secondo la giurisprudenza di legittimità, si assumono a riferimento per il calcolo della retribuzione utile Tfr tutti gli emolumenti riguardanti eventi collegati al rapporto di lavoro o connessi alla particolare organizzazione del lavoro ovvero in diretta dipendenza con le mansioni svolte dal dipendente in azienda.

Somme escluse dal calcolo – Ai sensi dell’art. 2120 c.c. sono escluse dal calcolo del Tfr le somme occasionali, identificate dalla giurisprudenza consolidata di Cassazione come tutti quei compensi non direttamente ricollegabili alla prestazione lavorativa, ma che trovano nel rapporto di lavoro solo l’occasione per la loro erogazione. La scarsa frequenza dell’erogazione non è di per sé un valido motivo per determinare l’esclusione dal calcolo del Tfr. Possono essere considerati occasionali, per esempio, gli importi corrisposti unilateralmente dal datore di lavoro come liberalità, una tantum e premi, senza che ciò sia dovuto per effetto di un’obbligazione contrattuale.

Non sono invece somme occasionali (anche se erogate sporadicamente) i compensi per festività non godute e prestazioni straordinarie, essendo importi previsti da fonti contrattuali.

Somme legate alla prestazione lavorativa – A prescindere dalla frequenza di erogazione degli importi, in assenza di specifiche disposizioni contrattuali che ne decretino l’esclusione dal calcolo del Tfr, sono da intendersi ricomprese le voci retributive riconosciute per le particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, nel rispetto delle previsioni della contrattazione collettiva e/o individuale. Si citano, a tal proposito, gli esempi delle maggiorazioni per lavoro festivo o notturno, le indennità di trasferta, nonché le indennità di sede e di cassa. Sono inoltre compresi nel calcolo del Tfr i compensi riconosciuti come retribuzione in natura.

Imprenditoria femminile 2025: bandi nazionali e regionali

Il quadro normativo del 2025 si articola in misure nazionali e regionali, caratterizzate da una combinazione di finanziamenti agevolati, contributi a fondo perduto e strumenti di garanzia che meritano un’analisi approfondita per coglierne appieno le potenzialità applicative.

Strumenti nazionali – Il programma ON – Oltre Nuove Imprese a Tasso Zero costituisce uno degli strumenti più versatili per supportare micro e piccole imprese con compagine prevalentemente o interamente femminile, indipendentemente dall’età delle socie. La misura finanzia progetti di investimento finalizzati alla costituzione di nuove realtà imprenditoriali o all’ampliamento, diversificazione e trasformazione di attività esistenti, attraverso una combinazione di contributo a fondo perduto e finanziamento a tasso zero che ottimizza la sostenibilità finanziaria dell’operazione.

Per le iniziative a vocazione tecnologica, Smart&Start Italia rappresenta lo strumento elettivo, offrendo finanziamenti compresi tra 100.000 e 1,5 milioni di euro a start-up innovative già costituite o in fase di costituzione. Particolarmente rilevante risulta lo stanziamento di 100 milioni di euro specificamente destinato a imprese guidate da donne, confermando l’operatività della misura per l’intero 2025.

Sul versante della garanzia, il Fondo Garanzia per le Pari Opportunità si configura come sezione speciale del Fondo centrale di garanzia per le PMI, gestita dalla Presidenza del Consiglio tramite il Dipartimento per le pari opportunità. Questo strumento consente di accedere a condizioni agevolate di copertura del rischio sulle operazioni di finanziamento, risultando particolarmente utile per rafforzare la bancabilità di progetti imprenditoriali femminili e di attività professionali.

La misura Investimenti innovativi sostenuti da imprese femminili nei Comuni montani (IFIM) presenta caratteristiche di nicchia, ma di grande interesse per clienti operanti in specifici contesti territoriali. Riservata a start-up innovative costituite prevalentemente da donne in forma di società di capitali o cooperative con sede operativa in Comuni montani individuati da Invitalia, questa agevolazione intercetta una duplice finalità di sviluppo: l’innovazione tecnologica e la valorizzazione delle aree interne.

Il Fondo Impresa Femminile, gestito da Invitalia nell’ambito degli interventi PNRR, mantiene la sua centralità nella strategia di sostegno all’autoimprenditorialità femminile, con particolare attenzione agli ambiti scientifici e tecnologici. Il rifinanziamento garantisce la continuità operativa della misura, consentendo la presentazione di domande secondo le modalità definite dai bandi attuativi.

Dal 20.08.2025, il nuovo portale “Imprenditoria femminile” promosso da Invitalia per conto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy e del Dipartimento per le Pari Opportunità rappresenta un punto di riferimento unificato per l’accesso alle informazioni relative agli strumenti di sostegno. Questo strumento digitale assume rilevanza anche per i professionisti, configurandosi come fonte aggiornata per la verifica delle opportunità disponibili e delle relative modalità di accesso, con particolare focus sui settori STEM e sulle professioni digitali.

Iniziative regionali – Il quadro regionale presenta una significativa eterogeneità, con alcune Regioni particolarmente attive nella promozione dell’imprenditoria femminile. Ad esempio, in Puglia, la misura NIDI – Nuove Iniziative d’Impresa 2021-2027 sostiene l’avvio di microimprese femminili attraverso contributi a fondo perduto e prestiti a tasso zero su investimenti fino a 150.000 euro. L’elemento distintivo risiede nella possibilità, per le imprese femminili virtuose, di trasformare fino al 75% del prestito in contributo non rimborsabile, con apertura dello sportello fino al 31.12.2030.

Alleghiamo poi un altra serie di proposte regionali.

Transazione e perdite su crediti: deducibilità con elementi oggettivi

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 9.10.2025, n. 27096, è tornata ad affrontare il tema della deducibilità delle perdite su crediti conseguenti a transazione con il debitore, ambito da sempre delicato per la mancanza di indicazioni normative specifiche. La pronuncia offre l’occasione per riaffermare un principio consolidato: la perdita che scaturisce da una transazione può considerarsi deducibile quando è fondata su elementi certi e precisi, idonei a giustificare la scelta imprenditoriale di rinunciare, in tutto o in parte, al credito originario.

Il caso riguardava una verifica fiscale nei confronti di Alfa S.r.l., che aveva concluso una transazione con la propria debitrice Beta S.r.l., rinunciando parzialmente al credito e ricevendo, a saldo del residuo, la cessione di un ramo d’azienda. L’Amministrazione Finanziaria aveva disconosciuto la deducibilità della perdita ritenendo insussistenti le ragioni economiche e ipotizzando un atto di liberalità, anche alla luce dei legami societari tra le 2 imprese. La Corte di giustizia tributaria di primo grado respingeva il ricorso di Alfa, ma la C.G.T. di secondo grado dell’Abruzzo riformava la decisione, riconoscendo la deducibilità della perdita in quanto conseguenza diretta e oggettiva della transazione, supportata dalla documentazione contabile e dal bilancio della debitrice.

La Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici regionali, respingendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. Richiamando i propri precedenti (tra cui Cass. nn. 10256/2013 e 10643/2018), i giudici di legittimità hanno ribadito che la transazione con il debitore costituisce un evento idoneo a generare una perdita deducibile, senza che sia necessario dimostrare l’insolvenza giudiziale del debitore. È sufficiente che la perdita sia supportata da fatti oggettivi e documentabili, tali da rendere ragionevole la decisione di transigere a condizioni meno favorevoli.

In tal senso, l’art. 101, c. 5 del Tuir collega la deducibilità delle perdite su crediti all’esistenza di elementi certi e precisi, che possono sussistere anche in ipotesi diverse dalle procedure concorsuali, inclusa la cancellazione del credito dal bilancio ai sensi dei principi contabili. Per i soggetti che adottano i principi OIC, la presunzione di certezza e precisione si considera integrata nei casi di cancellazione previsti dal documento OIC 15, secondo cui il credito viene eliminato dal bilancio quando i diritti contrattuali sui flussi finanziari si estinguono o vengono trasferiti, insieme ai rischi e benefici connessi. Sebbene l’OIC 15, nell’appendice A, non menzioni espressamente la transazione tra i casi di cancellazione, essa rientra tra le ipotesi che comportano l’estinzione dei flussi finanziari relativi al credito, come riconosciuto anche da Assonime (circ. n. 18/2014). Lo stesso principio contabile, al paragrafo 26, include tra le perdite su crediti “realizzate” anche quelle derivanti da transazioni, confermandone la rilevanza contabile e fiscale.

La Corte ha quindi precisato che la valutazione sulla deducibilità deve fondarsi su dati oggettivi, come la situazione patrimoniale del debitore, documentata ad esempio attraverso il bilancio, che rendano comprensibile la scelta economica dell’imprenditore di definire la controversia con una rinuncia parziale. Non è invece necessario fornire prova di un’attivazione giudiziale per accertare l’insolvenza del debitore, purché la perdita risulti certa, precisa e correttamente contabilizzata.

Sul piano generale, resta fermo che la deducibilità di costi e oneri derivanti da accordi transattivi deve essere valutata anche alla luce del principio di inerenza. In giurisprudenza, si è riconosciuta la deducibilità di somme versate per transazioni dirette a prevenire contenziosi legati all’attività d’impresa, come nel caso delle banche che risarciscono clienti per disservizi (Cass. n. 28355/2019; interpello Ag. Entrate n. 491/2022). Diversamente, la Cassazione ha escluso la deducibilità di somme corrisposte per danni da comportamenti contra ius, estranei alla sfera imprenditoriale (Cass. n. 31930/2021).

In conclusione, l’ordinanza conferma che la transazione con il debitore, se sostenuta da elementi oggettivi e contabilmente documentata, consente la deduzione della perdita su crediti. Tale impostazione valorizza l’approccio sostanziale e razionale dell’imprenditore nella gestione del rischio creditizio, offrendo un quadro interpretativo ormai stabile e favorevole alla certezza fiscale.

Come gestire la negoziazione interna e far crescere le persone

Sei il miglior commercialista? Hai in studio una eccellente tributarista o i collaboratori più efficienti? Se anche così fosse, e te lo auguro, ho una notizia: negli studi professionali la qualità tecnica è un buon prerequisito, ma non è un vantaggio competitivo.

È la negoziazione interna quella più determinante: non quella con i clienti o con il Fisco, bensì quella che riguarda soci, collaboratori e responsabili di area. E ha una caratteristica pericolosa: è anche quella meno evidente.

Per questo motivo, molti titolari si accorgono tardi che il problema non è “chi ha ragione”, ma “come si decide”.

Ogni gruppo di lavoro che funziona ha una sua modalità interna per gestire le comunicazioni, ma spesso è invisibile, non dichiarata, frutto di un mix casuale di relazioni.

Diventa quindi fondamentale stabilire ufficialmente una sorta di accordo, denominato “Patto interno di studio”.

Questo patto interno ha poche regole, semplici e condivise, che rendono possibile il dissenso senza distruggere la collaborazione. Non si tratta di un regolamento interno in più, ma di un una sorta di “Costituzione” dello studio, se mi permettete un’analogia un po’ azzardata, ma che rende l’idea.

Ecco i fondamentali per creare questo Patto.

Rendita vitalizia: termini sequenziali per la prescrizione

Va preliminarmente ricordato che il 12.01.2025 è entrato in vigore il Collegato lavoro (L. 13.12.2024, n. 203), il cui art. 30 ha novellato l’art. 13 L. 1338/1962.

Attualmente, la prescrizione dei crediti contributivi è di 5 anni (art. 3, c. 9 L. 8.08.1995, n. 335), fatti salvi i casi di denuncia del lavoratore (o dei suoi superstiti). Il lavoratore (o i suoi superstiti) può segnalare all’Inps l’omissione contributiva affinché l’Istituto proceda al recupero presso il datore di lavoro inadempiente entro il summenzionato termine quinquennale di prescrizione.

In caso di contributi pensionistici obbligatori non versati dal datore di lavoro e prescritti è tuttavia consentita la costituzione della rendita vitalizia, nelle 3 modalità ammesse dal legislatore e secondo la seguente sequenza temporale:

– il datore di lavoro può richiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia reversibile (art. 13, c. 1). La facoltà si prescrive decorsi 10 anni dalla data di prescrizione dei contributi a cui l’istanza si riferisce;

– se non può ottenere la costituzione della rendita vitalizia dal datore di lavoro, il lavoratore ha il diritto di attivare la rendita in via sostitutiva (art. 13, c. 5). Tale facoltà si prescrive decorsi 10 anni dalla prescrizione del diritto del datore di lavoro di costituzione della rendita vitalizia;

– una volta intervenuta la prescrizione del diritto alla costituzione della rendita vitalizia a opera del datore di lavoro e, in sua sostituzione, da parte del lavoratore, quest’ultimo (o i suoi superstiti) può chiedere la costituzione della rendita vitalizia in proprio e con onere interamente a proprio carico (art. 13, c. 7). Tale facoltà è sempre attivabile (l’Inps ritiene confermata, nel silenzio delle Sezioni Unite, la sua imprescrittibilità).

Confisca e transazione fiscale: le possibilità date dal pagamento

La Cassazione penale, con la sentenza 3.11.2025, n. 35840, riafferma un principio di forte impatto pratico, stabilendo che l’integrale pagamento del debito tributario in sede di transazione fiscale, anche all’interno di un concordato fallimentare, impone la revoca della confisca del profitto del reato. Ci troviamo in tal caso al cospetto di una decisione che segna il confine tra la funzione recuperatoria della confisca tributaria e il rischio di un suo uso punitivo improprio.

Nel caso deciso, il liquidatore di una S.p.A. chiedeva la revoca della confisca disposta a seguito di condanna per omesso versamento Iva ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000, dopo che la società aveva integralmente onorato la transazione fiscale nel quadro di un concordato fallimentare omologato e integralmente eseguito.

Il Tribunale di Arezzo aveva rigettato l’istanza, sostenendo che l’accordo in sede concorsuale non potesse rideterminare il debito tributario ai fini penali.

In contrapposizione a tale orientamento, la Terza Sezione penale ribalta la prospettiva, chiarendo che se il debito è stato pagato secondo i patti transattivi, non residua più alcuna “pretesa tributaria” e la confisca deve essere revocata.

Infortunio, mancate protezioni e responsabilità del datore di lavoro

Le cause che scaturiscono da infortuni sul lavoro che accadono utilizzando particolari macchinari ruotano spesso attorno alla diatriba “imperizia e negligenza del lavoratore” o “mancanza di adeguate protezioni”. Non fa eccezione la vicenda che è stata sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione e che è stata risolta con la sentenza 31.07.2025, n. 28018.

Nel caso di specie, il datore di lavoro è stato ritenuto responsabile dalla Corte territoriale “per aver cagionato, per colpa, al dipendente, lesioni personali gravi, per ustioni subite in varie parti del corpo, mentre lo stesso era intento ad attività di bonifica e recupero polvere da sparo e bossoli esausti in prossimità di una macchina di caricamento cartucce, allorquando da sotto la macchina si verificava una disconnessione dei cavi di alimentazione che innescava la polvere da sparo, cui seguiva un principio di incendio che cagionava al lavoratore le suddette lesioni”.

Secondo gli Ermellini, i Giudici d’appello hanno correttamente “escluso che la condotta del lavoratore presentasse profili di eccentricità e di abnormità, anche nelle modalità esecutive, pur risultando negligente il suo comportamento, visto che aveva eseguito le opere di bonifica nella zona sottostante il macchinario a motore acceso e avvalendosi di una scopa che aveva determinato il troncamento del cavo di alimentazione”. 

Nuova edizione del bando ISI Inail: 600 milioni di euro per le imprese

È atteso entro la fine dell’anno: un “regalo” alle imprese italiane, in pratica. Il nuovo bando ISI Inail (a valere sul 2026, ma relativo al 2025) conferma l’impegno pubblico nel supporto economico delle imprese che investono in sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Con qualche variazione rispetto alle edizioni precedenti: quella in arrivo si presenterà con un approccio più orientato all’innovazione e alla protezione dai rischi ambientali, in linea con le nuove sfide sulla sostenibilità.

Secondo quanto anticipato dal presidente Inail, la nuova edizione potrà contare su una dotazione finanziaria stimata in circa 600 milioni di euro con l’obiettivo di incentivare l’adozione di soluzioni tecnologiche all’avanguardia per ridurre il rischio in ambito lavorativo, strizzando l’occhio soprattutto alle micro, piccole e medie imprese.

Pur essendo, infatti, rivolto alle imprese di ogni dimensione, il bando presenta un focus privilegiato sulle MPMI e si articola su 2 livelli di contributo: un contributo “standard” a fondo perduto (a copertura fino al 65% delle spese ammissibili con un tetto massimo di 130.000 euro) e un contributo “maggiorato” riservato ad alcune tipologie di progetto (l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale o le iniziative proposte da giovani agricoltori) che potrebbe lievitare fino all’80% delle spese ammissibili.

Patente a punti, tra burocrazia e reale efficacia

L’introduzione della Patente a crediti (o a punti) per la sicurezza sul lavoro, destinata alle imprese e ai lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili (art. 27 D.Lgs. 81/2008), è stata presentata come una misura fondamentale per elevare gli standard di prevenzione. Sebbene l’obiettivo di ridurre gli infortuni sia assolutamente condivisibile, l’implementazione di questo sistema ha sollevato un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori: in particolare, viene evidenziato l’eccessivo aggravio burocratico a fronte di un’efficacia pratica tutta da dimostrare e ritenuta, da molti, insufficiente.

La Patente a punti, con un punteggio iniziale di 30 crediti e l’obbligo di mantenere almeno 15 punti per poter operare, richiede alle imprese di autocertificare una serie di requisiti: iscrizione alla Camera di Commercio, regolarità contributiva (Durc) e fiscale (Durf), adempimento degli obblighi formativi per datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori e designazione del RSPP.

La gestione di questo sistema implica il costante aggiornamento documentale e anche per questo il sistema delle decurtazioni è stato criticato per l’attenzione spostata dal controllo sostanziale alla conformità formale. L’inclusione di violazioni meramente documentali tra i motivi di decurtazione, talvolta duplicando sanzioni già previste, ha evidenziato una focalizzazione eccessiva sull’adempimento burocratico.

Controlli per gli ETS dal 2026

Dal 2026 entrerà a regime il nuovo sistema di controlli e vigilanza sugli enti del Terzo settore (ETS), attuativo degli artt. 93 e 96 del Codice del Terzo settore (D.Lgs. 117/2017).

La novità principale è l’introduzione di una programmazione triennale dei controlli ordinari (art. 10 D.M. 7.08.2025), cui saranno soggetti tutti gli ETS iscritti nelle sezioni a), b), c), e), g) del Runts, escluse dunque le imprese sociali e le società di mutuo soccorso. Ogni ente sarà verificato almeno una volta ogni 3 anni, mentre i controlli straordinari potranno essere disposti in qualsiasi momento dagli Uffici Runts a fronte di segnalazioni, irregolarità o inadempimenti gravi (artt. 15-16).

Le verifiche riguarderanno la permanenza dei requisiti di iscrizione, la corretta gestione civilistica e fiscale, la trasparenza dei bilanci, la tracciabilità delle risorse e il rispetto del divieto di distribuzione diretta o indiretta di utili e altre fattispecie previste dall’art. 11 D.M. 7.08.2025. Il procedimento, integralmente digitalizzato, sarà avviato tramite PEC e documentato su modelli uniformi approvati con decreto direttoriale del Runts (art. 5).

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