Il 31.10.2025 ha rappresentato il termine ordinario di presentazione del modello Redditi 2025, ma la normativa tributaria riconosce ai contribuenti un ulteriore margine operativo prima che si concretizzi il regime sanzionatorio più severo. Secondo quanto previsto dall’art. 2, c. 7 D.P.R. 322/1998, coloro il cui periodo d’imposta coincide con l’anno solare dispongono di una finestra temporale aggiuntiva pari a 90 giorni e quindi fino al 29.01.2025.
Una “dichiarazione tardiva” trasmessa entro questo intervallo mantiene piena efficacia dal punto di vista sostanziale, pur comportando l’obbligo di versare la relativa sanzione in modo concomitante. La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E/2016 ha chiarito che la contestualità non richiede simultaneità assoluta: il pagamento può perfezionarsi anche nei giorni successivi all’invio, purché entro il limite massimo del 29.01.2026.
È opportuno rilevare che mediante dichiarazione tardiva non risulta possibile aderire al concordato preventivo biennale, circostanza confermata dall’Agenzia con la circolare n. 18/E/2024, poiché il CPB presuppone il rigoroso rispetto dei termini ordinari.
Per quanto concerne l’ammontare sanzionatorio, la base di partenza è fissata a 250 euro. Tuttavia, si applica la riduzione a 1/5 determinando una sanzione effettiva di 25 euro in assenza di imposte dovute. Nel modello F24, occorre indicare il codice tributo 8911 e, aspetto critico frequentemente omesso, l’anno in cui la violazione materialmente si è consumata (2025) anziché quello del periodo d’imposta (2024).
Qualora dalla dichiarazione emergano imposte non versate, si aggiungono le sanzioni relative all’omesso versamento. La sanzione applicabile corrisponde al 25% dell’importo tributario omesso, ma è soggetta a riduzione mediante ravvedimento, secondo il momento temporale in cui il contribuente procede effettivamente al pagamento.
La situazione si differenzia notevolmente quando il problema non sia il ritardo bensì l’infedeltà dichiarativa. Il sistema sanzionatorio, a seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 87/2024, prevede diverse casistiche per la regolarizzazione delle dichiarazioni infedeli o con errori, distinguendo tra errori formali e sostanziali, e in base al momento in cui interviene la regolarizzazione tramite ravvedimento operoso. Se la dichiarazione integrativa viene presentata entro i 90 giorni dalla scadenza prevista per la trasmissione del modello, per gli errori che hanno determinato un minor versamento o un maggior credito e che non sono rilevabili tramite controlli automatizzati o formali, le sanzioni ridotte tramite ravvedimento operoso sono pari a 27,78 euro (250 euro x 1/9). Le dichiarazioni integrative presentate esclusivamente a favore del contribuente non subiscono alcuna sanzione.
Dopo il 29.01.2026, senza che si sia provveduto a trasmettere la dichiarazione tardiva, la dichiarazione viene considerata omessa. In questo scenario, la sanzione amministrativa si colloca tra il 120% e il 240% delle imposte dovute, con minimo di 250 euro; nel caso opposto, tra 250 e 1.000 euro, raddoppiabili per soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Il D.Lgs. 87/2024, entrato in vigore dal 1.09.2024, ha tuttavia introdotto una disposizione di parziale salvaguardia: se la dichiarazione viene presentata oltre i 90 giorni ma entro i termini di accertamento ex art. 43 D.P.R. 600/1973, senza che sia stato notificato alcun atto di verifica, la sanzione scende al 75% delle imposte dovute.
Sotto il profilo procedurale, occorre prestare attenzione alla corretta compilazione della dichiarazione integrativa. La dichiarazione produce effetti legittimi anche ai fini del calcolo degli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA) e dei relativi benefici premiali.
Infine, la dichiarazione tardiva produce effetti anche sulla decorrenza dei termini di accertamento che, se trasmessa nel 2026 consente di allungare di 12 mesi il tempo per l’attività di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria che si protrae, così, fino al 31.12.2031 anziché scadere al 31.12.2030.
Per rendere maggiormente conforme la norma nazionale ai principi unionali, la riforma fiscale (art. 7 L. 133/2023) prevede:
– la rimozione dell’attuale lett. i) dell’art. 19-bis 1 D.P.R. 633/1972 a mente della quale, tolte alcune eccezioni, l’Iva dovuta sull’acquisto, locazione, gestione e recupero di fabbricati abitativi è oggettivamente indetraibile;
– di rendere facoltativo il pro-rata generale dell’art. 19, c. 5, con l’ulteriore possibilità di circoscriverne l’utilizzo (in luogo dell’imputazione specifica in base a criteri oggettivi) ai soli beni e servizi promiscuamente impiegati sia per realizzare operazioni “imponibili” che “esenti”. Al netto delle attese modifiche il cammino verso i principi unionali, in particolare per quanto indicato al primo punto, è comunque rintracciabile (anche se a “mezzo tiro”) in alcune interpretazioni di prassi e giurisprudenza. Sintetizziamo alcuni di detti casi ricordando che, tralasciando le particolarità dei pro ratisti, le regole prevedono che la detrazione applicata in modo “prospettico” (C.M. n. 326/E/1997) sia comunque commisurata e quindi eventualmente rettificata sulla base dell’effettivo primo utilizzo (art. 19-bis.2, c. 1) e, per i beni ammortizzabili, ulteriormente rettificata (a favore o contro) nel caso di diverso impiego nel periodo di monitoraggio che per i fabbricati è decennale (cc. 2 e 8).
Con la sentenza n. 500 del 13.10.2025, la Corte d’Appello di Bologna, sezione lavoro, affronta un caso in cui un lavoratore ha impugnato giudizialmente uno solo di 2 licenziamenti disciplinari, entrambi fondati su distinti addebiti e notificati nella medesima occasione.
La vicenda ruota attorno a 2 contestazioni disciplinari, entrambe datate nello stesso giorno: la prima per assenza ingiustificata protrattasi per più giorni, la seconda per uso anomalo della carta carburante aziendale. Al termine dei procedimenti disciplinari, il datore di lavoro ha notificato 2 distinte lettere di licenziamento, entrambe recanti la stessa data. Il lavoratore, detenuto al momento della spedizione, non ha potuto riceverle direttamente, ma le ha poi ottenute tramite il proprio difensore, che gliele ha consegnate brevi manu in carcere.
Il dipendente ha proposto un’impugnazione stragiudiziale unica per entrambi i licenziamenti, ma ha successivamente agito in giudizio solo contro il primo, basato sulle assenze ingiustificate.
Il Tribunale ha respinto il ricorso per carenza di interesse ad agire, rilevando che, anche nell’ipotesi di illegittimità del primo licenziamento, il secondo, non impugnato nei termini, aveva comunque prodotto l’effetto risolutivo del rapporto.
La Corte d’Appello ha confermato integralmente la decisione, affermando 2 principi centrali: il primo concerne la nozione di “contestualità” tra atti di recesso distinti; il secondo, l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., come presupposto imprescindibile per l’accesso alla tutela giurisdizionale.
Quanto al primo punto, la Corte ha escluso che ci si trovi in presenza di “licenziamenti a catena” (ossia successivi e subordinati tra loro), richiamando la recente ordinanza Cass. n. 1376/2025, che ammette la pluralità di licenziamenti solo se fondati su fatti sopravvenuti o acquisiti in momenti distinti. Diversamente, nella fattispecie bolognese, i due licenziamenti sono stati contestualmente recapitati, in un unico momento di conoscenza effettiva, coincidente con la consegna al lavoratore in carcere. Trattandosi di atti unilaterali recettizi, ciò che rileva, afferma la Corte, è la ricezione e non la spedizione.
Inoltre, l’impugnazione giudiziale parziale non è sufficiente a mantenere in vita l’interesse ad agire. Laddove due licenziamenti autonomi e perfettamente validi siano stati contestualmente notificati, l’omessa impugnazione di 1 dei 2 determina comunque la cessazione definitiva del rapporto. Ne consegue che il lavoratore, per essere legittimato a chiedere l’illegittimità dell’uno, avrebbe dovuto impugnare tempestivamente entrambi i provvedimenti, entro i 180 giorni dalla prima impugnazione stragiudiziale.
La pronuncia si inserisce in un filone interpretativo rigoroso, che impedisce letture estensive del diritto all’azione quando il rapporto è comunque cessato per un atto non contestato. Sul piano operativo, per il lavoratore (e per i suoi difensori), la sentenza richiama l’attenzione sulla necessità di impugnare ogni atto espulsivo che produca effetti autonomi, anche se coevo o apparentemente subordinato ad altro. Per le aziende, la possibilità di emettere licenziamenti plurimi, purché fondati su condotte distinte e comunicati contestualmente, viene confermata come strumento legittimo, a patto che siano rispettati i canoni di tempestività, proporzionalità e trasparenza procedimentale.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 23.10.2025, n. 28205, si è pronunciata sulla portata dell’agevolazione fiscale prevista dall’art. 6, c. 13 e ss. L. 388/2000 (Tremonti ambiente) e specificamente sul computo, in aggiunta al costo dell’investimento ambientale, delle quote di ammortamento calcolate su tale costo nei primi 5 anni di “vita utile” dei beni strumentali in discorso.
Su tale controversa questione la Cassazione ha ritenuto che la deduzione integrale del costo di un impianto fotovoltaico, attraverso il calcolo incrementale, non può prevedere anche la deduzione dell’ammortamento per ognuno dei 5 anni successivi, perché in tal modo si verificherebbe un’illegittima e non prevista duplicazione agevolativa, essendo le quote di ammortamento periodico di un bene strumentale ricomprese nel costo di acquisto dello stesso, già preso a base di calcolo dell’agevolazione in esame.
La tesi non appare di alcuna condivisione. Come noto il calcolo dell’agevolazione veniva fatto derivare dal saldo algebrico: sovraccosto – ricavi operativi + costi operativi = agevolazione.
Il costo complessivo dell’investimento si raccordava alla determinazione del sovraccosto (primo addendo del saldo algebrico) che veniva sostenuto nel realizzo di un impianto di produzione meno pregiudizievole per l’ambiente.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta all’interpello 23.10.2025, n. 270, ha chiarito in modo puntuale il nuovo regime dei rimborsi spese di artisti e professionisti, in seguito alle modifiche apportate all’art. 54 D.P.R. 917/1986 dall’art. 5, c. 1, lett. b) D.Lgs. 192/2024, modifiche che entreranno in vigore a partire dal periodo d’imposta 2025 (dunque con impatto sul modello Redditi 2026).
Secondo la nuova disciplina, che recepisce il principio di onnicomprensività dei redditi professionali, non concorrono alla formazione del reddito le somme percepite a titolo di rimborso per spese sostenute nell’esecuzione di un incarico e addebitate analiticamente al committente. Tali spese, tuttavia, non saranno deducibili dal reddito del professionista, salvo i casi di insolvenza del committente disciplinati dall’art. 54-ter, cc. 2-5 del Tuir.
Il legislatore ha così inteso superare la precedente criticità derivante dall’assoggettamento a ritenuta d’acconto di somme che non rappresentano un reale compenso, ma il semplice recupero di costi sostenuti per conto del cliente
Perché un rimborso possa essere escluso dal reddito imponibile, deve rispettare precisi requisiti: le spese devono essere effettivamente sostenute in relazione diretta all’incarico, indicate in fattura separatamente dai compensi e supportate da documentazione completa, da cui risulti la tipologia di spesa, il suo importo e la connessione con l’attività professionale.
In assenza di una perizia giurata di stima attestante il valore economico del patrimonio netto dell’incorporata, il limite al riporto delle perdite fiscali in sede di fusione resta pari al patrimonio netto contabile rettificato dei versamenti e dei conferimenti effettuati nei 24 mesi precedenti, secondo quanto previsto dal novellato art. 172, c. 7 del Tuir. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello 3.11.2025, n. 278.
Nel caso esaminato una S.p.a. chiedeva di disapplicare il limite patrimoniale al riporto delle posizioni fiscali soggettive (perdite fiscali, interessi passivi ed eccedenza ACE) detenute dalla società incorporata, a seguito di una fusione per incorporazione conclusasi con effetti giuridici in data 1.10.2024 (e retrodatata ai fini contabili e fiscali al 1.01.2024). In particolare, al 30.09.2024, la società incorporata risultava essere titolare di tax asset rilevanti, ma il valore del patrimonio netto contabile era inferiore all’ammontare delle posizioni fiscali oggetto di riporto. Pertanto, in sede di interpello, veniva richiesta la disapplicazione della disciplina limitativa prevista dall’art. 172, c. 7 del Tuir, nella considerazione che l’operazione di fusione non presentava profili elusivi e che sussistevano i presupposti per il riporto integrale delle perdite fiscali.
L’Agenzia delle Entrate ha escluso effetti elusivi evidenti, riconoscendo il superamento del test di vitalità economica richiesto dalla norma.
Il recente documento elaborato da Consiglio nazionale e Fondazione dottori commercialisti effettua una ricognizione delle novità in materia di contraddittorio endoprocedimentale a seguito della riforma operata in attuazione della L. 9.08.2023, n. 111, fornendo un quadro riepilogativo della normativa e degli orientamenti giurisprudenziali prima della riforma ed evidenziando le criticità della nuova disciplina.
Il previgente quadro normativo non prevedeva a carico dell’Amministrazione Finanziaria un generale obbligo di contraddittorio preventivo, ma conteneva alcune previsioni isolate all’interno dello Statuto del Contribuente che si sostanziavano principalmente nei seguenti casi:
– art. 12, c. 7, (osservazioni dopo il rilascio del PVC in caso di accessi, ispezioni e verifiche);
– art. 10-bis, c. 6, (richiesta di chiarimenti nei casi di abuso del diritto);
– art. 6, c. 5, (richiesta di chiarimenti prima dell’iscrizione a ruolo);
Erano poi contenute nelle norme specifiche altre previsioni di contraddittorio anticipato obbligatorio e precisamente nei casi di accertamento da studi di settore, di accertamento sintetico, in materia di deducibilità dei costi “black list”, in caso di disapplicazione della disciplina in tema di CFC, nell’ambito dell’accertamento con adesione e nel procedimento di irrogazione delle sanzioni.
Nel processo di revisione e rinnovo del contenuto complessivo del Contratto collettivo nazionale di lavoro Igiene Ambientale – Aziende private e municipalizzate – Conflavoro PMI, al fine di adeguare il potere di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori, il giorno 27.10.2025 Conflavoro PMI con FESICA-CONFSAL, hanno aggiornato la parte economica.
Allo scopo di contestualizzare gli aumenti contrattuali in premessa, sono di seguito menzionati gli elementi della retribuzione di cui al Ccnl in questione:
– paga base nazionale conglobata (determinata sulla base dei minimi retributivi);
– terzi elementi e trattamenti integrativi;
– eventuali e.d.r. (elemento distinto della retribuzione);
– scatti di merito o di professionalità;
– altri elementi previsti dalla contrattazione di II livello.
Il Ccnl Igiene Ambientale prevede una doppia parametrazione dei minimi tabellari tenendo conto dell’anzianità di servizio del lavoratore:
– per il personale neoassunto (o in caso di passaggio a un livello superiore) fino al compimento dei 5 anni di permanenza nel ruolo;
– per il personale a seguito dei 5 anni di effettivo servizio nel livello.
Il 28.10.2025 è stato approvato un ulteriore pacchetto di misure con la finalità di ridurre gli infortuni sul lavoro e agevolare la vigilanza soprattutto negli ambiti a maggior incidenza infortunistica, tra le misure vi è l’introduzione del badge di riconoscimento dei lavoratori impiegati nelle catene di appalto.
Dopo l’introduzione in primavera della patente a crediti e delle altre misure di contrasto alla piaga degli infortuni sul lavoro, viene approvato un nuovo decreto che porta un insieme di ulteriori misure, non solo afflittive (come è ad esempio il raddoppio della sanzione da 6.000 a 12.000 euro per esercizio di attività senza patente a crediti), ma anche di carattere premiale, in questo ultimo caso tramite riconoscimenti di bonus sui premi Inail per le aziende.
Ulteriori misure riguardano il potenziamento della formazione e l’autorizzazione all’assunzione di personale di vigilanza presso l’Ispettorato nazionale del Lavoro, misure non di diretto impatto sulla operatività e sulle attività di vigilanza.
L’art. 7, c. 1 del Codice della crisi prevede: “Le domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle procedure di insolvenza sono trattate in un unico procedimento e ogni domanda sopravvenuta è riunita a quella già pendente”.
L’art. 40, c. 10 del Codice della crisi prevede: “Nel caso di pendenza di un procedimento per la apertura della procedura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, la domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è proposta, con ricorso ai sensi dell’art. 37, c. 1 e nel rispetto degli obblighi di cui all’art. 39 del Codice della crisi, nel medesimo procedimento, a pena di decadenza, entro la prima udienza e se entro il medesimo termine è proposta separatamente è riunita, anche d’ufficio, al procedimento pendente.
C.F e P.IVA: 01392340202 · Reg.Imp. di Mantova: n. 01392340202 · Capitale sociale € 210.400 i.v. · Codice destinatario: M5UXCR1
© 2025 Tutti i diritti riservati · Centro Studi Castelli Srl · Privacy · Cookie · Credits · Whistleblowing