La fase di pianificazione che, per i bilanci con esercizio in chiusura al 31.12.2025, viene svolta solitamente tra ottobre e dicembre 2025, comprende tutte quelle attività destinate all’individuazione e valutazione dei rischi, a livello di bilancio e di singola asserzione di voce di bilancio, che formeranno la base delle successive risposte del revisore attraverso le diverse e articolate procedure di revisione che verranno svolte.
È quindi questo il momento decisivo in cui si andrà a definire il perimetro delle attività da implementare durante il processo di revisione, individuando le aree maggiormente meritevoli di attenzione, fissando parametri quantitativi che influenzeranno la determinazione dell’estensione delle procedure di validità, programmando le tempistiche di svolgimento delle varie fasi operative e di supervisione, nonché la ripartizione del lavoro all’interno del team di revisione, arrivando all’elaborazione di una strategia da perseguire che verrà declinata in specifici piani di revisione.
Le attività che il revisore svolge in questa fase sono:
– comprensione dell’impresa e del contesto in cui opera, in modo da poter identificare e valutare i rischi di errori significativi nel bilancio e stabilire le procedure di revisione in risposta ai rischi identificati e valutati. Le informazioni da acquisire in tale fase, specialmente in occasione del primo anno di incarico, includono, ad esempio: i principali prodotti e servizi dell’impresa, la sua struttura legale, gli azionisti e le parti correlate, le condizioni del settore economico di riferimento che influenzano l’attività della società, gli indicatori finanziari, economici e patrimoniali, eventuali cambiamenti significativi nella struttura organizzativa, rettifiche contabili di entità significativa già rilevate o previste, il livello generale di competenza del personale direttivo;
– valutare i punti di forza e di debolezza del sistema di controllo interno, attraverso appositi strumenti operativi, quali diagrammi di flusso, descrizioni narrative e questionari. Le informazioni acquisite dovranno essere testate attraverso procedure di conformità, ossia verifiche a campione volte a verificare l’effettiva presenza ed efficacia dei controlli previsti;
– effettuare procedure di analisi comparativa che, tramite l’esame degli andamenti di dati finanziari, patrimoniali ed economici e di indici sintetici, servono a identificare l’esistenza di operazioni o eventi inusuali da tener poi presente nelle successive fasi del lavoro di revisione;
– definire il livello di materialità accettabile al fine di rilevare errori quantitativamente e qualitativamente significativi.
Le informazioni raccolte e le valutazioni effettuate dal revisore durante l’attività di pianificazione confluiscono nel piano generale della revisione, con il quale si definisce l’ampiezza e le modalità di svolgimento delle procedure di revisione. La forma e il contenuto di tale documento dipendono dalle dimensioni della società. Per le imprese di minori dimensioni si può, ad esempio, predisporre un breve memo aggiornato e modificato sulla base delle discussioni con il proprietario-amministratore della società.
Dopo aver definito la strategia, essa deve essere declinata in un piano di revisione dettagliato che include le indicazioni sulla natura ed estensione delle procedure di revisione che devono essere svolte per le singole voci del bilancio per ottenere sufficienti ed appropriati elementi probativi tali da ridurre il rischio di revisione a un livello accettabilmente basso.
L’antieconomicità non è solo un segnale di difficoltà economica, ma si configura come un grave indizio fiscale. Se l’impresa opera cronicamente in perdita, senza che vi siano motivazioni oggettive, straordinarie o strategiche (che devono essere specificamente documentate e fornite in sede di contraddittorio), essa espone il contribuente al rischio di rettifica dei redditi con un metodo induttivo che può prescindere dai dati nominali di bilancio, basandosi su parametri esterni o su incongruenze interne.
La controversia, che ha dato origine all’ordinanza 26182/2025, verteva, infatti, sulla liceità dell’accertamento analitico-induttivo basato non solo sulla sproporzione tra costi e ricavi, ma anche sulle discordanze tra le ricevute fiscali emesse e le fatture di acquisto o le rimanenze, elementi che aggravavano l’anomalia economica. La Corte di Cassazione ha ribadito così che l’antieconomicità dell’attività è un indizio “grave e preciso” che legittima l’intervento dell’Amministrazione Finanziaria.
La pronuncia si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale relativo all’accertamento dei redditi d’impresa con metodo analitico-induttivo, disciplinato dall’art. 39, c. 1, lett. d) D.P.R. 600/1973. In questo contesto giurisprudenziale per antieconomicità si definisce la sproporzione cronica tra costi e ricavi che porta l’impresa a operare in perdita senza che vi siano giustificazioni plausibili.
La prassi professionale è costellata di casi in cui la permanenza in bilancio di debiti di fornitura “storici”, i cui creditori siano stati nel frattempo cancellati dal Registro delle Imprese, diventa oggetto di contenzioso con l’Agenzia delle Entrate. L’Ufficio, infatti, tende a presumere automaticamente l’estinzione del debito a seguito della cancellazione dell’ente creditore, qualificando l’importo come sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88 del Tuir. Tuttavia, l’ordinanza 4.11.2025, n. 29086 offre al professionista uno strumento decisivo di difesa e, soprattutto, di prevenzione, ribadendo in termini inequivocabili il principio di continuità giuridica stabilito dalle Sezioni Unite.
Principio di continuità e trasferimento ai soci – La Corte si è trovata a sindacare la legittimità di un avviso di accertamento (Irpef/Irap 2013) emesso nei confronti di una ditta individuale, in cui la C.T.R. aveva ritenuto legittimo il recupero fiscale di un debito verso una S.r.l. estinta, sulla base della sola cancellazione di quest’ultima dal Registro delle Imprese. Tale approccio è stato categoricamente disatteso dalla Suprema Corte, che ha accolto il ricorso del contribuente limitatamente a questo punto.
Il principio cardine, già affermato dalle Sezioni Unite (sent. n. 19750/2025), è cristallino: l’estinzione della società conseguente alla cancellazione non comporta affatto l’estinzione automatica dei relativi crediti. Al contrario, questi crediti si trasferiscono in capo ai soci, secondo il meccanismo della successione.
Il meccanismo del pignoramento semplificato previsto dall’art. 72-bis D.P.R. 602/1973 continua a generare dubbi interpretativi, soprattutto quando il terzo non esegue il pagamento entro i termini fissati dall’Agente della riscossione. È un tema che continua a emergere nella prassi degli studi professionali e che la Corte di Cassazione ha affrontato ancora una volta con l’ordinanza 16.11.2025, n. 30214. Vale la pena ricostruire in modo ordinato il quadro normativo, perché il sistema mostra più sfumature di quanto possa sembrare.
Il pignoramento diretto sulle somme dovute da un terzo consente all’Agente di riscossione di evitare la citazione prevista dall’art. 543 c.p.c., sostituendola con un ordine immediato di pagamento nelle proprie mani. È un modello che può riguardare crediti già scaduti oppure somme che maturano entro i 60 giorni dalla notifica. In teoria la procedura appare rapida e lineare, ma in realtà vive dell’effettiva collaborazione del terzo. Se quest’ultimo non adempie, anche solo per ragioni tecniche o per incertezza sulla propria posizione, l’atto notificato ex art. 72-bis perde efficacia operativa.
Si consideri che la giurisprudenza ha spesso qualificato questo atto come una forma speciale di pignoramento presso terzi, con la conseguenza che esso deve essere notificato anche al debitore esecutato. Si tratta di un elemento essenziale per garantire il diritto di difesa e la piena conoscibilità dell’azione esecutiva.
Con l’ordinanza n. 29741/2025, la Corte Suprema di Cassazione torna a esaminare il tema dell’eccedenza retributiva rispetto ai minimi contrattuali. Il provvedimento conferma che il cosiddetto superminimo, ossia la parte di stipendio pattuita individualmente in aggiunta ai livelli tabellari del contratto collettivo, è soggetto al principio dell’assorbimento. Quando il lavoratore ottiene una qualifica superiore con conseguente aumento dei minimi, tale incremento può inglobare, in tutto o in parte, la somma precedentemente percepita come superminimo. Solo un accordo esplicito o una disposizione del Ccnl può escludere questa regola e garantire la conservazione autonoma dell’emolumento. Il pronunciamento si distingue per la puntualità con cui chiarisce le condizioni probatorie necessarie a mantenere il beneficio, richiamando l’attenzione su come le parti contrattuali debbano formalizzare con precisione i termini della retribuzione aggiuntiva.
Onere della prova e chiarezza contrattuale – Un aspetto centrale dell’ordinanza riguarda la ripartizione dell’onere della prova. La Corte precisa che spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza di un titolo che giustifichi il mantenimento del superminimo come voce non assorbibile. Tale prova può derivare da un contratto individuale, da una clausola scritta o da comunicazioni aziendali che attestino la volontà del datore di riconoscere una componente retributiva distinta e permanente. In assenza di tale documentazione, l’eccedenza retributiva è considerata assorbibile nei successivi miglioramenti derivanti da avanzamenti di carriera o rinnovi contrattuali collettivi. Il datore di lavoro, dunque, non ha l’obbligo di dimostrare l’assorbimento, poiché esso costituisce la regola generale.
Nei giorni scorsi, presso le commissioni Bilancio di Camera e Senato, si sono tenute le audizioni delle parti sociali, dei sindacati, delle associazioni di categoria, dei vari stakeholder nell’ambito dell’esame del disegno di legge, varato dal Governo, sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno 2026 e sul bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028.
Un giudizio sostanzialmente positivo è stato espresso dalle diverse organizzazioni agricole sui contenuti della proposta di legge (credito d’imposta, nuova Sabatini, sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, rinvio per la “Plastic tax” e per la “Sugar tax”, incremento delle risorse per gli Istituti zooprofilattici sperimentali); un giudizio che, però, è stato accompagnato da una serie di rilievi che hanno evidenziato lacune che si chiede vengano colmate.
Innanzitutto, è stato sollecitato un rafforzamento delle risorse destinate al credito d’imposta 4.0 per l’anno 2026, visto che quelle stanziate vengono ritenute insufficienti a sostenere un numero adeguato di investimenti; al tempo stesso, è stato suggerito di estendere la misura anche alle attività agricole connesse, attualmente escluse.
In tema di accertamento tributario nei confronti dei lavoratori autonomi e dei professionisti, la presunzione legale prevista dall’art. 32, c. 1, n. 2 D.P.R. 600/1973 continua ad applicarsi nei confronti dei versamenti effettuati sui conti correnti, che, se non giustificati, sono considerati ricavi non dichiarati. Ne consegue la legittimità dell’accertamento basato su indagini bancarie anche nei confronti dei professionisti. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 11.11.2025, n. 29739.
Nel caso esaminato l’Agenzia delle Entrate notificava a un lavoratore autonomo un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2011, recuperando a tassazione somme ai fini Irpef, Irap e Iva sulla base di movimentazioni bancarie (versamenti e prelievi) ritenute non giustificate.
Nel primo grado di giudizio, la C.T.P. confermava l’accertamento per i versamenti, mentre annullava la ripresa relativa ai prelievi, ritenendo applicabile la presunzione soltanto ai primi. In sede d’appello, in riforma parziale della decisione di primo grado, la C.T.R. annullava integralmente l’accertamento, escludendo la possibilità di applicare la presunzione legale prevista dall’art. 32 D.P.R. 600/1973 anche ai versamenti, interpretando in modo estensivo la sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014 e richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 23041/2015).
L’art. 86 del Tuir disciplina il trattamento delle plusvalenze patrimoniali. Al c. 2, dispone che la plusvalenza è costituita dalla differenza tra il corrispettivo (o l’indennizzo) conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato. L’ultimo periodo del c. 2 rappresenta un’ipotesi di neutralità nella parte in cui stabilisce che, qualora il corrispettivo della cessione sia costituito esclusivamente da beni ammortizzabili e questi vengono iscritti in bilancio allo stesso valore al quale vi erano iscritti i beni ceduti, si considera plusvalenza soltanto il conguaglio in denaro eventualmente pattuito.
Quindi, ad esempio, nel caso di una permuta in cui i valori attributi ai 2 beni oggetto di scambio siano mantenuti in continuità con i valori contabili, nessuna plusvalenza emerge. Il caso della permuta è molto frequente nelle operazioni immobiliari, soprattutto con la formula della permuta di cosa presente contro cosa futura. L’Agenzia delle Entrate, con la risposta all’interpello n. 283/2025, ha proprio analizzato un caso del genere. Nell’interpello presentato da una società proprietaria di un terreno adibito a parcheggio viene rappresentata la volontà di cessione di tale bene a terzi, ricevendo come corrispettivo alcuni posti auto da realizzare su tale area, oltre ad un conguaglio in denaro.
Una delle fonti di scontro tra Amministrazione Finanziaria e contribuenti riguarda le deduzioni derivanti dalle perdite su crediti derivanti da saldo e stralcio.
Per essere riconosciuta ai fini fiscali, la perdita su crediti deve passare attraverso i paletti fissati dalla norma del Testo Unico (art. 101, c. 5 del Tuir).
La norma, che disciplina analiticamente i presupposti per la deduzione delle perdite su crediti, è giustificata dalla preoccupazione che accordi scellerati tra fornitori e clienti abbiano come unica finalità quella di conseguire vantaggi fiscali illeciti. Preoccupazione invero infondata, quanto meno nelle realtà strutturate, in quanto a nessuno verrebbe in mente di rinunciare ad un incasso per beneficiare di una minore tassazione.
Per queste ragioni tradizionalmente la disciplina tributaria pretende che le perdite sui crediti derivino da fatti oggettivi, ossia da elementi certi e precisi sottratti alla discrezionalità dell’imprenditore. In un recente passato si pretendeva anche l’oggettiva certezza non solo in relazione alla esistenza della perdita ma anche al momento di cui essa si manifestava (fino all’art. 13 D.Lgs. 147/2015).
Dal 18.11.2025 al 2.12.2025 le imprese, che hanno già inviato la comunicazione “originaria” per poter beneficiare del credito di imposta Zes Unica entro il 30.05.2025, devono presentare all’Agenzia delle Entrate la comunicazione integrativa. Senza questo passaggio il credito decade in modo definitivo e non resta alcun margine per una sanatoria successiva.
La comunicazione integrativa serve ad attestare che gli investimenti indicati a suo tempo nella domanda sono stati effettivamente realizzati entro il 15.11.2025, con importi, fatture e certificazioni del revisore allineate alla contabilità.
Sul piano territoriale restano confermate le aree ammissibili: Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia e parti dell’Abruzzo. Conta il luogo dove è fisicamente localizzato il bene agevolato, non solo la sede legale dell’impresa.
Uno degli aspetti più complessi riguarda il limite massimo degli investimenti: nel modello integrativo non è possibile indicare importi superiori a quelli comunicati nella domanda originaria. È una regola semplice, ma con risvolti pesanti. Se un’impresa ha sostenuto costi maggiori rispetto al preventivo iniziale non potrà fruirne ai fini del credito per la parte eccedente la prenotazione; se invece gli investimenti effettivi sono inferiori, si dovrà indicare l’importo reale e il credito verrà ridimensionato di conseguenza.
La comunicazione integrativa deve contenere non solo la conferma dei beni acquistati, ma anche l’ammontare del credito d’imposta maturato, i riferimenti alle fatture elettroniche, i dati della certificazione del revisore legale prevista dal D.M. 17.05.2024, che attesta la corrispondenza delle spese alla documentazione contabile e il loro effettivo sostenimento. In caso di acconti fatturati tra il 20.09.2023 e il 31.12.2024, relativi a investimenti completati nel 2025, la certificazione deve ricostruire il collegamento tra acconto e bene finale, in modo che la catena documentale sia chiara e verificabile.
Un passaggio delicato riguarda la dimensione dell’impresa. Con la risposta dell’Agenzia delle Entrate all’interpello n. 168/2025 è stato chiarito che, ai fini della percentuale di agevolazione rileva la dimensione al momento di invio della comunicazione integrativa, non quella cristallizzata nella prima comunicazione.
Sotto il profilo operativo la comunicazione integrativa va inviata esclusivamente per via telematica, utilizzando il modello approvato con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate n. 25972/2025, aggiornato al 7.11.2025, e il software “ZES UNICA INTEGRATIVA2025”. Il file può essere trasmesso direttamente dal beneficiario oppure tramite intermediari abilitati ai sensi dell’art. 3, cc. 2-bis e 3 D.P.R. 322/1998. Il sistema rilascia una ricevuta che attesta la presa in carico o segnala lo scarto.
È importante ricordare che, come indicato dall’Agenzia, si considera tempestiva anche la comunicazione inviata tra 28.11.2025 e 2.12.2025 ma scartata dai servizi telematici, purché ritrasmessa entro il 7.12.2025.
Situazione diversa per gli investimenti acquisiti in leasing o non documentabili tramite fattura elettronica. In questi casi occorre attendere la verifica del Centro Operativo Servizi Fiscali di Cagliari. La certificazione va trasmessa alla casella PEC creditoimpostazes@pec.agenziaentrate.it entro 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento che determina la percentuale.
Un ulteriore livello di attenzione riguarda gli adempimenti antimafia. Se il credito supera 150.000 euro, considerando anche la quota maturata con la ZES 2024, si applicano le verifiche previste dal D.Lgs. 159/2011 e dall’art. 1, c. 52 L. 190/2012. Sono richieste dichiarazioni sostitutive dei soggetti coinvolti e dei conviventi, oppure la prova dell’iscrizione nelle white list delle Prefetture.
Resta il limite complessivo di spesa pari a 2,2 miliardi. Solo dopo il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate sulla percentuale di riparto, atteso entro il 12.12.2025, il contribuente potrà utilizzare il credito in compensazione con F24 tramite codice 7034.
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