Imposte sui voli dei passeggeri di aerotaxi e sugli aeromobili privati

L’imposta erariale sui voli dei passeggeri di aerotaxi e l’imposta sugli aeromobili privati, introdotte nell’ordinamento dal D.L. 201/2011, prendono posto, organicamente, agli artt. 31, 32 e 33 del nuovo Testo unico dei tributi erariali minori, attualmente in pubblica consultazione.

L’imposta erariale sui voli dei passeggeri di aerotaxi e di elicotteri è dovuta da ciascun passeggero e all’effettuazione di ciascuna tratta, intendendosi per tragitto il percorso effettuato sul territorio nazionale dal luogo di partenza al diverso luogo di destinazione, a prescindere dagli scali tecnici, nella misura di:

  • 10 euro in caso di tragitto non superiore a 100 chilometri;
  • 100 euro in caso di tragitto superiore a 100 chilometri e non superiore a 1.500 chilometri;
  • 200 euro in caso di tragitto superiore a 1.500 chilometri.

Per le tratte che vengono effettuate tramite aeromobili immatricolati nel Registro aeronautico nazionale (RAN) tenuto dall’Ente nazionale per l’aviazione civile (ENAC), o nei registri di Paesi comunitari o appartenenti allo spazio economico europeo, l’imposta deve essere versata dal vettore entro la fine del mese successivo a quello di effettuazione del servizio.
Per le tratte effettuate con aeromobili non immatricolati nei predetti registri, l’imposta deve essere versata, per ciascuna tratta, prima della partenza o entro il giorno successivo all’arrivo nel territorio nazionale.
Il versamento dell’imposta deve essere effettuato utilizzando il modello di pagamento “F24 versamenti con elementi identificativi” e codice tributo 3379. I contribuenti impossibilitati a utilizzare il modello F24 possono effettuare il versamento mediante un bonifico in euro in favore del Bilancio dello Stato.

L’imposta erariale sugli aeromobili privati deve essere corrisposta dai soggetti che risultano dai pubblici registri essere proprietari, usufruttuari, acquirenti con patto di riservato dominio ovvero utilizzatori a titolo di locazione finanziaria dell’aeromobile e deve essere pagata all’atto della richiesta di rilascio o rinnovo del certificato di revisione della aeronavigabilità. Ciò significa che, per l’applicazione dell’imposta, devono ricorrere congiuntamente i requisiti dell’immatricolazione dell’aeromobile nel RAN e della richiesta di rilascio o rinnovo del certificato di revisione dell’aeronavigabilità e nel caso in cui il certificato abbia validità inferiore a 1 anno, l’imposta è dovuta nella misura di 1/12 per ciascun mese di validità.
L’imposta si applica anche agli aeromobili non immatricolati nel Registro, la cui permanenza nel territorio italiano si protragga per una durata anche non continuativa superiore a 6 mesi.
Le misure annuali dell’imposta ammontano:

  • aeroplani con peso massimo al decollo:
    • fino a 1.000 kg: 0,75 euro al kg;
    • fino a 2.000 kg: 1,25 euro al kg;
    • fino a 4.000 kg: 4,00 euro al kg;
    • fino a 6.000 kg: 5,00 euro al kg;
    • fino a 8.000 kg: 6,65 euro al kg;
    • fino a 10.000 kg: 7,10 euro al kg;
    • oltre 10.000 kg: 7,60 euro al kg;
  • elicotteri: l’imposta è pari a quella stabilita per gli aeroplani di corrispondente peso maggiorata del 50%;
  • alianti, motoalianti e aerostati: 450 euro.

Sono esentati dal pagamento dell’imposta alcune categorie di velivoli, tra le quali:

  • gli aeromobili di Stato e quelli a essi equiparati;
  • gli aeromobili di Stati esteri, compresi quelli militari;
  • gli aeromobili di proprietà o in esercenza dei licenziatari dei servizi di linea e non di linea;
  • gli aeromobili di proprietà o in esercenza delle organizzazioni registrate o delle scuole di addestramento e dei centri di addestramento per le abilitazioni;
  • gli aeromobili immatricolati a nome dei costruttori e in attesa di vendita;
  • gli aeromobili storici (oltre 40 anni).

Il versamento dell’imposta deve essere effettuato in unica soluzione utilizzando il modello di pagamento “F24 versamenti con elementi identificativi” e codice tributo 3368. I contribuenti impossibilitati a utilizzare il modello F24 possono effettuare il versamento mediante un bonifico in euro in favore del bilancio dello Stato.

Illegittimo il licenziamento per inabilità fisica senza repechage

Licenziamento e inidoneità fisica – L’ordinanza 12.04.2024, n. 9937 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha affrontato un tema delicato nel diritto del lavoro: l’illegittimità del licenziamento per inidoneità fisica del dipendente quando il datore di lavoro non ha considerato l’opportunità di adibire il lavoratore a mansioni alternative.

Questa decisione sottolinea la responsabilità dei datori di lavoro di valutare tutte le possibili soluzioni di ricollocazione professionale prima di procedere alla rescissione del rapporto lavorativo. In questo modo, si enfatizza l’importanza di supportare i dipendenti, cercando opzioni inclusive che promuovano un ambiente lavorativo più equo e accomodante.

Caso in esame – Il caso in esame riguarda il licenziamento di un dipendente, avvenuto in data 8.04.2015, a seguito di una presunta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni assegnate. Il datore di lavoro, nel procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro, aveva sostenuto l’impossibilità di individuare posizioni alternative compatibili con le condizioni di salute del lavoratore. I giudici di secondo grado, dopo l’esame delle circostanze e delle evidenze presentate, hanno confermato l’illegittimità del licenziamento, ritenendo insufficienti le argomentazioni addotte dall’azienda.

Mediazione obbligatoria: comparizione delle parti e delegabilità

Nel procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal D. Lgs 28/2010 è necessaria la comparizione delle parti davanti al mediatore, assistite dal difensore. L’art. 8, dedicato al procedimento, prevede infatti espressamente che, al primo incontro davanti al mediatore, debbano essere presenti sia le parti che i loro avvocati. La previsione della presenza sia delle parti sia degli avvocati comporta che, ai fini della realizzazione delle condizioni di procedibilità, la parte non possa evitare di presentarsi davanti al mediatore, inviando soltanto il proprio avvocato.


Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente si ritiene però ammissibile che la parte si faccia sostituire dal proprio difensore che l’assiste nel procedimento di mediazione, purché dotato di apposita procura sostanziale (Cass. 20643/2023). Si è infatti precisato che la necessità della comparizione personale non comporta che si tratti di attività non delegabile. In mancanza di una previsione espressa in tale senso, e non avendo natura di atto strettamente personale, deve ritenersi che possa trattarsi di attività delegabile ad altri. Pertanto, la parte che non voglia o non possa partecipare personalmente alla mediazione può farsi liberamente sostituire, da chiunque e, quindi, anche dal proprio difensore, ma deve rilasciare a questo scopo una procura sostanziale, che non rientra nei poteri di autentica dell’avvocato, neppure se il potere è conferito allo stesso professionista, e, pertanto, deve essere redatta dal notaio.

Se da un lato non sussistono espressi limiti alla scelta della parte di conferire la partecipazione alla mediazione a un soggetto terzo che sia a conoscenza dei fatti e che sia munito formalmente di idonei poteri rappresentativi sul piano sostanziale, dall’altro occorre precisare che la modifica introdotta dall’art. 7, lett. h) D.Lgs. 149/2022 (in attuazione della L. 206/2021) all’art. 8 citato ha espressamente previsto, al c. 4, che le parti partecipino personalmente alla procedura di mediazione e che solo in presenza di giustificati motivi, possano delegare un rappresentante a conoscere dei fatti munendolo dei poteri necessari per la composizione della controversia. L’introduzione del comma citato è stata interpretata da una recente sentenza del Tribunale di Firenze (15.03.2024 n. 316), nel senso che nella procura conferita al terzo devono essere specificati i “giustificati motivi” della mancata partecipazione.

Quanto alle conseguenze dell’assenza dei giustificati motivi per la delega la legge non indica espressamente la sanzione prevista. Considerato che la ratio della norma è quella di accrescere la partecipazione personale delle parti per facilitare la conciliazione, sarebbe illogico far discendere dalla nomina “immotivata” di un rappresentante l’inefficacia dell’accordo raggiunto. Ma, qualora l’accordo non fosse raggiunto, la parte rappresentata immotivatamente dovrebbe ritenersi assente con la conseguente improcedibilità della domanda giudiziale.

La legge non definisce la nozione di “giustificato motivo”, non essendo possibile tipicizzare le ragioni che rendono necessaria la nomina di un rappresentante. Spetta al giudice valutare le ragioni che hanno indotto a rilasciare la procura e qualora né l’interessato le chiarisca, né risultino dagli atti, deve ritenerle insussistenti e disporre l’improcedibilità del giudizio di merito essendo onere della parte rappresentata dimostrare l’esistenza dei giustificati motivi.

Intelligenza artificiale e risorse umane: sfide e scenari reali

L’intelligenza artificiale (spesso abbreviata con l’acronimo IA) è diventata un elemento onnipresente nelle moderne strategie d’impresa ed il suo impatto sulle dinamiche legate alle risorse umane non è trascurabile. Le organizzazioni stanno adottando sempre più soluzioni basate sull’IA per migliorare l’efficienza, ottimizzare le risorse e guidare le decisioni informate. Tuttavia, questo cambiamento non è privo di sfide e richiede una riflessione critica sulle modalità in cui l’IA può essere integrata in modo efficace nel contesto delle risorse umane.

Uno degli ambiti in cui l’IA ha avuto un impatto più significativo è quello della ricerca e selezione: le imprese stanno utilizzando sempre più spesso algoritmi di IA per analizzare grandi quantità di dati sui candidati, valutare le loro competenze e prevedere le loro probabilità di successo all’interno dell’organizzazione.

Tuttavia, sorgono preoccupazioni riguardo alla possibilità che l’IA possa non essere immune da pregiudizi nei processi decisionali (non meno dell’umana psiche), se non adeguatamente monitorata e regolamentata. È fondamentale garantire la trasparenza e l’equità nei modelli di ricerca e selezione basati sull’IA, per evitare discriminazioni involontarie e promuovere concretamente la diversità e l’inclusione sul luogo di lavoro.

Un’altra area di grande interesse è quella della formazione. L’IA può essere utilizzata per identificare le lacune nelle competenze, personalizzare i percorsi e migliorare l’efficacia della formazione attraverso sistemi di apprendimento automatizzato.

Non può concretizzarsi l’usucapione tra coniugi durante il matrimonio

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cassazione civile sez. I, 4.04.2024, n. 8931) fa chiarezza sulla generale impossibilità di usucapire un bene di un coniuge da parte dell’altro coniuge. Vi è, altresì, da sottolineare che questa importante decisione ha anche un riflesso rilevante sulle tante situazioni che si presentano in particolare ai creditori, allorquando si contesta la perdita della proprietà di un bene del debitore per intervenuta usucapione da parte del coniuge del medesimo.

Nasce la domanda: è possibile che un coniuge possa usucapire il bene dell’altro coniuge per usucapione durante il matrimonio? La Suprema Corte si è espressa con un “no” deciso con la sentenza che si commenta. Il fatto esaminato è il seguente: il giudice delegato al fallimento rigettava la richiesta presentata dalla moglie del fallito, la quale aveva sostenuto di essere proprietaria del 50% della proprietà degli immobili acquisiti all’attivo del fallimento, perché ne aveva acquisito la proprietà per usucapione.

Il Tribunale, preso atto che la moglie, con l’opposizione alla decisione del giudice delegato, aveva chiesto che fosse riconosciuta l’usucapione in suo favore della metà dei beni immobili acquisiti al fallimento, per averli posseduti uti domina ed unitamente al marito poi dichiarato fallito, osservava che in costanza di matrimonio nessun termine utile all’usucapione può decorrere fra i coniugi, per cui l’opponente non poteva vantare alcun diritto reale sui beni acquisiti all’attivo del fallimento.

Parte la riforma dei Centri di assistenza agricola

I nuovi Centri di assistenza agricola (CAA) potranno entrare nella gestione dell’Anagrafe Aziendale Nazionale su delega degli organismi pagatori. Ma arrivano norme più stringenti. I Centri di Assistenza Agricola saranno radicati sul territorio. Rappresentano un anello imprescindibile per gli agricoltori nella gestione dei fascicoli aziendali e nel percepimento dei contributi comunitari.

Il provvedimento del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste del 21.02.2024 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 13.04.2024, n. 87) tiene conto delle esigenze espresse dai professionisti, garantendo al contempo la separazione tra attività di consulenza e di assistenza secondo le richieste europee. Viene inoltre garantito appieno il ruolo fondamentale delle Regioni, perseguendo allo stesso tempo un coordinamento più stretto, a cominciare dalla gestione dei dati, con Agea.

Nuove funzioni, dall’Anagrafe alla statistica agraria – Con il nuovo decreto le funzioni attribuite ai CAA escono nettamente potenziate. In presenza di una delega da parte di un ente pubblico, anche senza specifico riferimento ad Agea, agli enti pagatori e alle Regioni, il CAA ha facoltà d’intervento. Tuttavia, l’unico requisito è posto dall’art. 2: le competenze esclusive degli appartenenti agli ordini professionali.

Onere del Fisco provare l’inesistenza delle fatture

Il caso in esame trae origine dall’emissione di 2 avvisi di accertamento per Iva relativi agli anni d’imposta 2007 e 2008. Tali provvedimenti venivano impugnati innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Torino, che rigettava il ricorso. Il contribuente ricorreva alla Commissione tributaria regionale, che accoglieva invece l’appello annullando la sentenza emessa dai giudici tributari di primo grado.

L’Amministrazione Finanziaria ricorreva in sede di Cassazione deducendo in apposito motivo di ricorso l’eccessivo peso attribuito dalla Commissione tributaria regionale agli esiti del procedimento penale, che al contempo avevano portato a sacrificare i molteplici elementi dedotti dall’Amministrazione che portavano a ritenere sicuramente illegittima la detrazione dell’Iva.

Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso, veniva deciso con il provvedimento qui in commento. La questione esaminata nel caso concreto riguarda i caratteri dell’onere probatorio che incombe sull’Amministrazione Finanziaria in tali casi. La Corte di Cassazione sul punto aveva sempre interpretato la normativa individuando uno specifico onere in capo all’Amministrazione Finanziaria che intende contestare al contribuente l’indebita detrazione relativamente a operazioni oggettivamente inesistenti.

L’abuso del diritto nell’ordinamento italiano

La normativa relativa all’abuso del diritto è disciplinata dall’art. 10-bis L. 27.07.2000, n. 212 (c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente). La nozione di abuso si fonda sulla realizzazione di vantaggi tributari indebiti mediante operazioni che sono prive di sostanza economica, intendendo per tali quelle che sono inidonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono costituiti da:

  1. la mancanza di sostanza economica nelle operazioni effettuate;
  2. la realizzazione di un indebito vantaggio fiscale;
  3. la natura essenziale del vantaggio fiscale indebito conseguito.

Questi presupposti devono necessariamente sussistere contestualmente, tanto che l’assenza di uno dei tre presupposti costitutivi dell’abuso determina un giudizio di assenza di abusività. A livello applicativo:

  • preliminarmente, occorre procedere alla verifica dell’esistenza di un indebito vantaggio fiscale;
  • solo in caso di positiva individuazione dell’indebito vantaggio: è necessario verificare la sussistenza degli altri elementi costitutivi, ovvero l’assenza di sostanza

Sezioni Unite: i presupposti dell’azione dell’Erario verso i soci

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 22.03.2024 n. 7850, dopo che la CTR della Toscana, con la sentenza del 27.09.2016, aveva rigettato l’appello principale delle Entrate, fondando l’accoglimento delle tesi di difesa sul principio di diritto che raccorda la legittimazione del creditore ad agire nei confronti dei soci alla preventiva prova dell’effettiva percezione di utili distribuiti risultanti dal bilancio finale di liquidazione, ha rinviato la causa a nuovo ruolo avendo la medesima, con ordinanza del 14.03.2023, n. 7425, rimesso alle Sezioni Unite la questione se la mancata prova della percezione di utili documentati nel bilancio finale di liquidazione da parte del creditore erariale, incida sulla legittimazione del medesimo e sul relativo interesse ad agire per far valere la responsabilità successoria dei soci ai fini dell’art. 2495 c.c.


Più specificamente la tesi di difesa deduceva la violazione dell’art. 2495, c. 2 c.c., in combinato disposto con l’art. 36, c. 5 D.P.R. 29.09.1973, n. 600, per il quale: “la responsabilità di cui ai commi precedenti è accertata…con atto motivato da notificare (ai soci) ai sensi dell’art 60 del D.P.R. 600/73”.

In ordine allo specifico tema, ed in attesa che si pronuncino le Sezioni Unite si vuole sottolineare come, sul piano del diritto, la rappresentazione dei presupposti costituenti il paradigma legale della responsabilità d’imposta, non possa mai partecipare del contenuto e delle motivazioni del medesimo atto che accerta il tributo, non solo perché non vi è identità di situazione giuridica, né di fattispecie dal punto di vista sia oggettivo, sia soggettivo, ma anche perché tra gli effetti prodotti ricorre un rapporto logico di consequenzialità.

Leader dei tuoi clienti

Non basta dare ottimi prodotti al giusto prezzo, un buon servizio e con una buona relazione per accontentare i clienti? Certo, se non ci fossero i concorrenti. Ma la concorrenza non è l’unico ostacolo se, invece di prodotti materici e visibili, vendete servizi. In questo caso, dove la comunicazione è basilare in quanto il cliente basa le sue scelte su promesse e fiducia, ecco che la capacità di essere un punto di riferimento fa la differenza in un mercato saturo di informazioni, offerte e promesse.

I clienti non scelgono più solo in base al prezzo o alle caratteristiche tangibili del servizio, ma cercano anche una connessione emotiva e un rapporto di fiducia con il fornitore. Essere percepiti come un punto di riferimento non è solo una strategia di marketing, ma è indispensabile per perseguire il proprio business con successo. Essere il leader di qualcuno non significa solo fornire un servizio superiore, ma anche guidare e diventare il punto di riferimento nel proprio settore.

Mi ricordo che, quando iniziai a fare business (prodotto innovativo per l’Italia sulle tecniche di apprendimento rapido), avevo 24 anni e per me era una novità cercare i clienti. Sarà stata l’inesperienza unita alla giovane età, ma entrando timidamente, piano piano, il business non decollava. È bastata una intervista a Gente Money, che ha richiamato altre interviste che mi qualificavano come un “leader”, per aumentare esponenzialmente le richieste dal mercato.

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