La legge di Bilancio 2026 inizia il suo cammino istituzionale lungo il sentiero tracciato dal Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), che sostituisce la Nota al documento di Economia e Finanza (Nadef). Il Documento programmatico di bilancio (DPB), da trasmettere al Parlamento e alla Commissione europea, è stato illustrato dal Ministro dell’economia e delle finanze Giorgetti nel corso del Consiglio dei Ministri del 14.10.2025.
Il disegno di legge di Bilancio 2026, i cui contenuti principali sono stati anticipati dal Ministro, sarà invece esaminato nel prossimo Consiglio dei ministri, prima di approdare anch’esso in Parlamento.
Tra le misure di probabile adozione figura un ulteriore rafforzamento delle misure per il welfare aziendale, in continuità con gli interventi già operati dalle precedenti manovre e, da ultimo, con la legge di Bilancio 2025.
L’art. 1, cc. 390 e 391 L. 30.12.2024, n. 207, si ricorda, dispone che, per i periodi d’imposta 2025, 2026 e 2027, in deroga a quanto previsto dall’art. 51, c. 3 del Tuir (che prevede un limite di esenzione ordinario di 258,23 euro), il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati al lavoratore dipendente dal datore di lavoro, nonché le somme erogate o rimborsate al lavoratore dipendente dal datore di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, delle spese per la locazione dell’abitazione principale ovvero degli interessi sul mutuo relativo all’abitazione principale, non concorrono a determinare il reddito da lavoro dipendente entro il limite complessivo di 1.000 euro. Tale limite è innalzato a 2.000 euro per il lavoratore dipendente con figli fiscalmente a carico ex art. 12, c. 2 del Tuir, compresi i figli nati fuori del matrimonio, riconosciuti, adottivi, affiliati o affidati e, per ragioni logico-sistematiche, i figli conviventi del coniuge deceduto. Il lavoratore dipendente è tenuto a dichiarare al datore di lavoro di avere diritto all’innalzamento del limite di esenzione, indicando il codice fiscale di ciascun figlio a carico.
L’esenzione è riconosciuta in misura intera a ogni genitore, titolare di reddito di lavoro dipendente e/o assimilato, anche in presenza di un unico figlio, purché lo stesso sia fiscalmente a carico di entrambi. Inoltre, spetta anche se il contribuente, in quanto percettore dell’assegno unico e universale (AUU), non può beneficiare della detrazione per figli fiscalmente a carico.
Come ha ricordato l’Agenzia delle Entrate (circolare 16.05.2025, n. 4/E), il limite di esenzione è un limite soglia: il suo superamento comporta l’imponibilità dell’intero ammontare e non soltanto della quota parte eccedente.
La proposta che sarà portata all’esame del Governo e che, con ogni probabilità, confluirà nel disegno di legge di Bilancio 2026 prevede un ulteriore innalzamento della soglia di esenzione dei fringe benefits da 2.000 a 4.000 per i lavoratori con figli a carico e da 1.000 a 2.000 per gli altri.
Un altro annunciato intervento riguarda i premi di produttività. Il c. 385 della legge di Bilancio 2025 estende ai premi e alle somme erogati negli anni d’imposta 2025, 2026 e 2027 la riduzione transitoria, da 10 a 5 punti percentuali, dell’aliquota dell’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali regionali e comunali, nel limite di 3.000 euro lordi annui o di 4.000 euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro, per lavoratori con redditi da lavoro dipendente, relativi nell’anno precedente a quello di percezione del premio, non superiori a 80.000 euro.
Il disegno di legge di Bilancio 2026 potrebbe prevedere l’innalzamento del limite annuo su cui applicare l’imposta sostitutiva da 3.000 a 4.000 euro.
Confermata invece l’esenzione fiscale e contributiva se il premio di risultato, per scelta del lavoratore, è convertito in welfare, la c.d. welfarizzazione.
La L. 131/2025, entrata in vigore lo scorso 20.09.2025, prevede una serie di misure finalizzate a contrastare lo spopolamento e promuovere lo sviluppo dei territori montani italiani.
In particolare, l’art. 1 definisce le finalità della legge indicandole nella crescita economica e sociale delle zone montane, da attuare con la valorizzazione dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi, della tutela del suolo e delle relative funzioni eco sistemiche, delle risorse naturali, del paesaggio, del territorio e delle risorse idriche e forestali, della salute, delle attività sportive, del turismo e delle loro peculiarità storiche, artistiche, culturali e linguistiche, dell’identità e della coesione delle comunità locali, anche ai fini del contrasto della crisi climatica e demografica e nell’interesse delle future generazioni e della sostenibilità degli interventi economici.
Quindi si tratta di un provvedimento ad ampio raggio.
Quello che andiamo ad analizzare è il contenuto dell’art. 25, rubricato “Misure fiscali a favore delle imprese montane esercitate dai giovani”.
In questo ultimo periodo, le imprese stanno ricevendo schemi di atto o inviti al contraddittorio nei quali l’Agenzia delle Entrate contesta che i contributi e i ristori Covid, qualificati come “proventi esenti”, debbano essere defalcati dalle perdite riportabili ex art. 84 del Tuir. Si “ritiene” innanzitutto che l’architettura normativa emergenziale abbia stabilito un regime di esclusione dalla base imponibile e di irrilevanza ai fini del rapporto pro rata, attraverso disposizioni specifiche come l’art. 10-bis D.L. 137/2020 che prevede espressamente che i contributi erogati in via eccezionale per l’emergenza Covid 19 non concorrano alla formazione del reddito e non rilevino ai fini del rapporto di cui all’art. 109, c. 5 del Tuir. È, pertanto, evidente che la norma non classifica tali proventi come “esenti”, limitandosi a prevederne la non concorrenza alla formazione dell’imponibile.
Questa soluzione normativa è stata replicata e confermata per talune misure a fondo perduto, come disposto dall’art. 1, c. 7 D.L. 41/2021 e dall’art. 25 D.L. 34/2020, che ribadiscono la non concorrenza al reddito e la non rilevanza ai fini del pro rata per specifici ristori. L’art. 84 del Tuir, che disciplina il riporto delle perdite, opera invece su presupposti differenti: la riduzione della perdita è prevista per i “proventi esenti” nella misura in cui detti proventi eccedano i componenti negativi non dedotti secondo il rapporto previsto dall’art. 109, c. 5 del Tuir; dunque, richiede sia la qualificazione come provento esente sia la rilevanza ai fini del rapporto pro rata. Se i sostegni Covid sono esclusi ex lege dal concorso al reddito e sono espressamente dichiarati “fuori pro rata” dall’art. 10-bis (D.L. 137/2020), mancherebbe il presupposto tecnico per applicare la sterilizzazione prevista dall’art. 84 del Tuir e, quindi, non sussisterebbe base normativa sufficiente per defalcare tali contributi dalle perdite riportabili. La prassi dell’Agenzia delle Entrate, nelle risposte a interpello rilevanti, ha più volte confermato la portata operativa dell’art. 10-bis riconoscendo che i sostegni strettamente connessi all’emergenza e diversi da quelli preesistenti non concorrono al reddito e sono fuori pro rata (risposte nn. 521/2021, 618/2021, 58/2022 e 366/2023), senza “agganciare” la disciplina applicata all’art. 84.
Sul piano teleologico, l’argomento che l’esclusione possa determinare un “doppio beneficio” non può prevalere sulla chiarezza letterale della norma emergenziale che ha voluto sterilizzare sia la tassazione sia il pro rata sui ristori, senza introdurre un meccanismo che consumi le perdite fiscali; quando il legislatore ha inteso agire in senso contrario “lo ha fatto espressamente”, come nel caso dell’art. 88, c. 4-ter del Tuir sul trattamento delle sopravvenienze da esdebitamento, che impone l’imputazione preventiva alla perdita senza il limite dell’80% come regola speciale e tipizzata.
Anche i decreti successivi hanno mantenuto la stessa logica di detassazione delle misure emergenziali e il coordinamento con il Temporary Framework senza rinviare all’art. 84 per sterilizzare perdite attraverso la nozione di proventi esenti (artt. 1 e 1-bis D.L. 73/2021). In pratica, il criterio applicativo è semplice e stringente: ai fini dell’art. 84 del Tuir la riduzione delle perdite si attiva solo se ricorrono “entrambe le condizioni richieste dalla norma” (proventi esenti e rilevanza ai fini del rapporto dell’art. 109, c. 5); per i contributi qualificati non concorrenti e fuori pro rata ex art. 10-bis tali condizioni non sussistono e, quindi, gli inviti a defalcare i ristori dalle perdite appaiono “privi” del necessario fondamento testuale e sistematico.
Alla luce della disciplina emergenziale (in particolare art. 10-bis D.L. 137/2020) e della sua interpretazione pratica dall’Agenzia delle Entrate, si ritiene che i contribuenti che hanno ricevuto ristori Covid-19 qualificati come non concorrenti e fuori pro rata non siano tenuti a defalcare tali importi dalle perdite riportabili ai sensi dell’art. 84 del Tuir, poiché mancano i presupposti normativi richiesti da quest’ultimo articolo. Peraltro, considerato che quasi tutte le misure sovvenzionali previste negli ultimi anni (dai crediti d’imposta transizione 4.0 e 5.0 a quelli per ricerca, sviluppo ed innovazione) prevedono la “non concorrenza al reddito” del provento, il problema sollevato ora dall’Agenzia delle Entrate sarebbe dirompente; questo significherebbe che 100 euro di beneficio restano 100 euro solo per le imprese con un reddito imponibile positivo, mentre diventano, con l’andare del tempo, 76 (cioè 100 meno il 24%) per quelle in perdita fiscale, senza alcuna giustificazione. È auspicabile una norma interpretativa adeguata a mantenere un minimo di credibilità al sistema degli aiuti alle imprese.
L’obiettivo dichiarato della L. 23.09.2025 n. 132, di “coordinare l’ordinamento nazionale con il Regolamento UE 2024/1689 sull’AI” e “non introdurre nuovi obblighi”, mi ricorda molto le consuete riduzioni delle tasse senza impatto. E come in quel caso l’odore di fregatura aleggia nell’aria, qui percepisco già in lontananza il fruscio sinistro dell’ennesima modulistica.
Il nocciolo della questione sembra essere l’art. 13, che recita:
1 “l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”.
E fino a qui mi pare di non avere particolari sconvolgimenti: se il mio lavoro non derivasse dalla mia prestazione intellettuale che, proprio perché “intelligente” fa uso di AI, banche dati, software e calcolatrici, non vedo che senso avrebbe corrispondermi un compenso. Se il mio cliente si procurasse gli stessi risultati che ottiene con me interrogando un chatbot più o meno gratuito, è evidente che il valore della mia prestazione sarebbe pari a quella del GPT, cioè pochi euro al mese.
Ma ciò che sta scatenando gli “esperti del modulo e delle dichiarazioni inutili” è l’art. 2 che ammonisce:
La Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, con la sentenza 1.10.2025 n. 32520, ha respinto il ricorso del preposto e capo cantiere di una ditta edile, confermando la condanna per omessa vigilanza sul corretto uso di una scala a pioli da parte di un lavoratore che, durante le operazioni di pulizia di un edificio comunale, era caduto a terra riportando gravi lesioni. Secondo la ricostruzione dei giudici, il lavoratore era salito sulla scala doppia senza che un collega la trattenesse, operando a cavalcioni sulla stessa per rimuovere ragnatele. La Corte ha ritenuto provato che tale attività fosse stata disposta o comunque tollerata dal preposto, il quale era presente sul luogo e impegnato in lavori analoghi.
Posizione di garanzia del preposto – La sentenza ribadisce un principio ormai consolidato: il preposto è titolare di una vera e propria posizione di garanzia rispetto alla sicurezza dei lavoratori. Ai sensi degli artt. 2, c. 1, lett. e) e 19 D.Lgs. 81/2008, egli deve sovrintendere e vigilare sull’attività lavorativa, assicurandosi che le direttive aziendali in materia di sicurezza siano correttamente applicate. La Corte richiama la propria giurisprudenza (Sez. 4, n. 12251/2014), secondo cui il preposto risponde degli infortuni occorsi ai lavoratori ogniqualvolta l’evento sia riconducibile alla mancata vigilanza su condotte pericolose o prassi difformi dalle regole di sicurezza. Nel caso in esame, la presenza del preposto in cantiere e la visibilità diretta delle operazioni svolte dal lavoratore hanno reso ineludibile il suo obbligo di intervento.
La disinvoltura con la quale alcune piccole società usano la cassa sociale tradisce comportamenti che appartengono più al mondo delle relazioni familiari che a quello societario. Il più delle volte questi comportamenti avvengono con l’accordo di tutti o di alcuni dei soci, senza confronto nemmeno con il consulente.
Nella maggior parte dei casi questi comportamenti non hanno conseguenze. Tuttavia, può accadere che i comportamenti contra-legem diano luogo a conseguenze inattese e a considerevole distanza di tempo.
Questa è la doppia lezione che ci insegna la Cassazione, Sez. III, con l’ordinanza 21.07.2025, n. 20514.
La vertenza pervenuta all’esame della Corte Suprema riguarda una società in accomandita semplice che nel 2008 aveva erogato ai soci delle somme a titolo di acconti sugli utili.
La questione non avrebbe avuto un seguito giudiziario se non fosse successo che la società, dopo tale data, è stata ammessa a concordato giudiziale. Infatti, dopo la nomina, l’amministratore giudiziale ha contestato ai soci il prelevamento di somme non corrispondenti ad utili.
In effetti, i soci delle società personali hanno il diritto di prelevare utili dalla società secondo una procedura semplificata rispetto alle società di capitali, ma che nondimeno va rispettata.
La Corte di giustizia tributaria di primo grado di Rovigo, con la sentenza 10.10.2025, n. 177, ha accolto il ricorso del contribuente che riteneva del tutto destituito di valore indiziario il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria al parametro costituto dalla cd. redditività mediana, fatta derivare da una media aritmetica raccordata a un range compreso tra -0,5% e 21,4% ritenendolo un criterio statistico non coerente con le prerogative presuntive ex art. 2729 c.c. La sentenza va senz’altro condivisa. Nel ricorso si rappresentavano due questioni che sul piano del diritto si ritenevano ergersi ad asse portante dell’illegittimità della ripresa fiscale rappresentata dall’Ufficio.
La prima questione era il totale oscuramento dei soggetti cui veniva riferita la percentuale della redditività che precludeva al contribuente ogni forma di verifica, rendendo del tutto unilaterale la scelta dei soggetti stessi e l’indicazione di dati in alcun modo comprovati sul piano del loro effettivo riscontro. A tale specifico proposito si deve sottolineare come la mancanza per il contribuente di ogni possibilità di verifica in ordine alla veridicità dei dati meramente inventariati nello schema d’atto in oggetto, in unione con la nuova versione dell’art. 7, c. 5-bis D.Lgs. 546/1992 che, con chiaro tenore letterale, pone a carico dell’Amministrazione
L’invoice trading rappresenta una delle più significative innovazioni nell’ambito della finanza alternativa applicata alle piccole e medie imprese. Di derivazione anglosassone, si tratta di un meccanismo di cessione di crediti commerciali attraverso piattaforme digitali specializzate (come Cashme, Cribis, Workinvoice ecc.), mediante il quale l’impresa cedente ottiene liquidità immediata, a fronte di una remunerazione riconosciuta all’investitore terzo (cessionario).
Tale strumento consente di convertire crediti a breve termine in disponibilità liquide, favorendo la continuità aziendale e riducendo la dipendenza dal credito bancario tradizionale. La cessione del credito può prevedere che l’impresa mantenga la responsabilità in caso di mancato pagamento del debitore, oppure che tale rischio venga trasferito integralmente all’acquirente. La diversa configurazione contrattuale incide sulla rilevazione contabile, sulla deducibilità delle eventuali perdite e sulla valutazione del rischio di controparte.
L’invoice trading si rivolge prevalentemente a società di capitali con un portafoglio clienti solido e regolare, capaci di documentare fatture esigibili e non contestate.
L’art 25, c. 3-bis D.Lgs. 36/2021 prevede che, ricorrendone i presupposti, anche i sodalizi sportivi dilettantistici “possono avvalersi di prestatori di lavoro occasionale, secondo la normativa vigente”.
Evidenziato che, a differenza del precedente c. 2 in relazione al lavoro subordinato o autonomo (titolare di partita Iva/co.co.co), il legislatore ha omesso qualsiasi riferimento alle “attività di lavoro sportivo”, nel c. 3 bis rientrano sia i lavoratori autonomi occasionali ex art 2222 c.c., ossia le prestazioni prive da vincoli di subordinazione e continuità, sia coloro per cui è possibile attivare, sotto la direzione e il coordinamento del committente, un contratto di prestazioni occasionali ai sensi dell’ art 54-bis D.L. 50/2017 (cd “PrestO”).
Il CONI, tramite apposita istanza, ha richiesto all’Agenzia delle Entrate chiarimenti in merito all’applicazione della soglia di non imponibilità (15.000 euro) in caso di lavoratori sportivi che conseguono redditi di lavoro autonomo abituale e occasionale, categoria quest’ultima per cui tuttavia l’Amministrazione Finanziaria, nel parere reso con la consulenza giuridica n. 956-12/2024 pubblicata solo di recente, non si è espressamente pronunciata.
La Corte di Cassazione è tornata a esprimersi su un tema frequentemente oggetto di contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria: la deducibilità fiscale del trattamento di fine mandato (TFM) riconosciuto agli amministratori di società. Con l’ordinanza 3.07.2025, n. 18026 la Suprema Corte ha ribadito in modo netto che non esiste alcun obbligo per le società di determinare l’accantonamento al TFM seguendo i criteri previsti dall’art. 2120 c.c., relativi esclusivamente al trattamento di fine rapporto dei lavoratori subordinati.
Tale posizione, ormai consolidata anche nella giurisprudenza di merito, sconfessa le contestazioni sollevate in passato dall’Agenzia delle Entrate, che riteneva deducibile l’accantonamento solo se calcolato in base alla retribuzione annua divisa per 13,5. La Cassazione, al contrario, ha chiarito che il trattamento di fine mandato degli amministratori trova fondamento nell’autonomia contrattuale delle parti e deve essere disciplinato secondo l’art. 2389 c.c., e non attraverso un richiamo analogico a disposizioni previste per i dipendenti.
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