Lavoro intermittente: cosa cambia senza il R.D. 2657/1923

La L. 56/2025, pubblicata sulla G.U. 95/2025, rappresenta un’operazione di portata straordinaria, avendo disposto l’abrogazione di oltre 30.000 atti normativi risalenti al periodo compreso tra il 1861 e il 1946, nell’ambito di una più ampia strategia di semplificazione e modernizzazione dell’ordinamento giuridico nazionale. Tra i numerosi atti abrogati, assume particolare rilevanza il R.D. 2657/1923, che conteneva in allegato la tabella delle occupazioni caratterizzate da lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia.

La tabella aveva un ruolo fondamentale nell’individuare le attività alle quali non si applicava la limitazione dell’orario di lavoro stabilita dall’art. 1 D.L. 692/1923.

L’eliminazione di tale riferimento normativo ha generato inevitabili interrogativi sull’applicazione del lavoro intermittente, strumento contrattuale che ha trovato ampio utilizzo nel mercato del lavoro contemporaneo per la sua flessibilità e adattabilità alle esigenze produttive discontinue.

Si rammenta che il lavoro intermittente trova la sua disciplina nell’art. 13 e ss. D.Lgs. 81/2015 che definiscono tale tipologia contrattuale come un accordo, anche a tempo determinato, attraverso il quale il lavoratore si rende disponibile nei confronti del datore di lavoro, il quale può richiedere la prestazione lavorativa secondo modalità discontinue per esigenze specificate dai contratti collettivi di settore, che possono anche prevedere la possibilità di svolgere le prestazioni in periodi prestabiliti durante la settimana, il mese o l’anno. In assenza di una disciplina collettiva di riferimento, la normativa prevede che i casi di utilizzo del lavoro intermittente vengano individuati attraverso decreto del Ministro del Lavoro. È importante sottolineare che il presupposto oggettivo, derivante dalla contrattazione collettiva o dalla tabella del R.D. non rappresenta l’unica via per l’attivazione di un contratto di lavoro intermittente.

La normativa vigente prevede infatti la possibilità di stipulare tale contratto anche sulla base del presupposto soggettivo, indipendentemente dalla natura dell’attività svolta. Il legislatore ha individuato due specifiche categorie di lavoratori per le quali è sempre ammissibile il ricorso al contratto intermittente: la prima categoria comprende i lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative vengano svolte entro il compimento del 25° anno; la seconda categoria include i lavoratori che abbiano superato i 55 anni di età.

Il percorso interpretativo in tema di abrogazione di atti normativi presenta importanti precedenti e già con il D.Lgs. 179/2009, attuativo della Legge delega 246/2005, si era verificata la parziale abrogazione del R.D. 2657/1923. In quell’occasione, il Ministero del Lavoro era intervenuto con la circolare 29.09.2010, n. 34, precisando che l’abrogazione formale del R.D. non impediva l’utilizzo della tabella allegata per l’applicazione del lavoro intermittente. Il principio alla base di tale interpretazione risiedeva nella natura sostanziale, e non meramente formale, del rinvio operato dal D.M. 23.10.2004.

Successivamente, con la risposta all’interpello 21.03.2016, n. 10, il Ministero ha ribadito che, in assenza di un nuovo specifico decreto, era ancora possibile fare riferimento al D.M. 23.10.2004, permettendo così la stipulazione di contratti “a chiamata” per le tipologie di attività elencate nella tabella del 1923.

Secondo l’orientamento ministeriale, quindi, il rinvio alla tabella è da considerarsi sostanziale e non formale; in altre parole, il riferimento si fonda sulla natura intrinsecamente discontinua delle attività elencate, piuttosto che sulla validità formale dell’atto normativo che le conteneva. Tale interpretazione garantisce continuità applicativa e certezza giuridica, evitando che l’abrogazione di atti normativi storici possa compromettere l’utilizzo di strumenti contrattuali moderni basati su caratteristiche oggettive delle prestazioni lavorative.

Nonostante l’abrogazione formale operata dalla L. 56/2025, pertanto, appare plausibile e giuridicamente sostenibile continuare a utilizzare la tabella allegata al R.D. come riferimento per l’identificazione delle attività intermittenti. La soluzione transitoria consente di mantenere operativo lo strumento del lavoro “a chiamata” per le tradizionali attività discontinue, evitando una paralisi applicativa in attesa di un nuovo intervento normativo.

Deduzione forfetaria gestori di impianti carburante nel mod. Redditi PF

La disciplina tributaria applicabile ai distributori di carburante ha raggiunto una stabilità normativa significativa con l’introduzione dell’art. 34 L. 12.11.2011, n. 183. Questa disposizione ha posto termine al regime delle continue proroghe annuali che aveva caratterizzato il settore dal 1998, stabilendo a regime una deduzione forfetaria pensata per compensare l’impatto delle accise sulla determinazione del reddito d’impresa di questi operatori economici. Il legislatore ha voluto riconoscere, attraverso questo strumento, la particolare posizione dei gestori degli impianti di distribuzione che, pur non rivestendo formalmente la qualifica di sostituti d’imposta, svolgono de facto una funzione di riscossione per conto dell’Erario.

La misura si configura tecnicamente come una deduzione forfetaria dal reddito di impresa, calcolata applicando percentuali decrescenti su scaglioni progressivi. Il meccanismo di calcolo ha subito una modifica sostanziale nel 2013, quando il D.L. 69/2013 ha sostituito il parametro originario dei “ricavi” con quello del “volume d’affari”, allineando la disciplina alle definizioni contenute nel D.P.R. 26.10.1972, n. 633. Per volume d’affari si intende in questo caso l’ammontare complessivo dei ricavi derivanti da cessioni dirette di carburante, escludendo i compensi per servizi di gestione di impianti di proprietà di terzi.

Dimissioni genitoriali: l’INL rileva squilibri persistenti

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha recentemente provveduto alla pubblicazione della relazione annuale concernente le convalide delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali dei rapporti lavorativi di lavoratrici madri e lavoratori padri, ai sensi dell’art. 55 D.Lgs. 26.03.2001, n. 151. Il quadro emergente da tale rendiconto si presta a una lettura articolata, capace di restituire una rappresentazione fedele delle dinamiche sottese alla fuoriuscita, spesso forzata, dei genitori lavoratori dal mercato occupazionale.

L’analisi statistica mostra una sostanziale stabilità nei numeri complessivi, con 62.688 provvedimenti rilasciati nel 2023 e 60.756 nell’anno successivo. Nella quasi totalità dei casi si tratta di dimissioni volontarie, mentre le fattispecie relative a giusta causa o a risoluzioni consensuali rappresentano percentuali irrisorie, e in lieve flessione nel 2024. Questo dato, solo apparentemente neutro, cela una complessità rilevante, giacché la volontarietà delle dimissioni può spesso configurarsi come il portato di una libertà viziata da pressioni, diseguaglianze o carenze strutturali nei sistemi di conciliazione.

Prevalgono nettamente le dimissioni femminili, con il 70,4% nel 2023 e il 69,5% nel 2024, a conferma di un trend ormai consolidato che sancisce la maggiore esposizione delle donne alla rinuncia lavorativa a seguito della maternità. Non sorprende, in tal senso, che oltre il 78% delle convalide riguardi la fascia anagrafica compresa tra i 29 e i 44 anni, con una concentrazione significativa di soggetti con un solo figlio, per il 49% di età inferiore a un anno. Si tratta, dunque, di un periodo di particolare fragilità, in cui la genitorialità si esplica in una fase ad alta intensità di bisogni, spesso non adeguatamente sostenuti da misure organizzative o culturali.

Il dato relativo alla cittadinanza evidenzia, inoltre, un lieve incremento della componente extra UE, passata dal 9,6% all’11,2%, a fronte di una contrazione dei cittadini italiani e di quelli appartenenti all’Unione Europea. Rilevante, anche qui, la persistenza del primato femminile, che si riflette in modo trasversale anche nelle comunità straniere.

Dal punto di vista delle qualifiche, impiegati e operai rappresentano oltre il 91% dei casi. Le madri si concentrano prevalentemente tra le impiegate, mentre i padri trovano maggiore rappresentazione nei ruoli operai. Va tuttavia segnalata una lieve ma significativa crescita delle convalide riferite a posizioni apicali, soprattutto maschili, che potrebbe preludere a una tendenziale diffusione del fenomeno anche tra figure dotate di maggiore potere contrattuale.

Quanto all’anzianità di servizio, oltre il 90% dei provvedimenti riguarda rapporti inferiori ai 10 anni, con una crescita particolarmente evidente nel triennio iniziale, segno di una mobilità precoce o di una difficoltà nel consolidamento dell’inserimento lavorativo. In relazione ai settori produttivi, si conferma la preponderanza del terziario, che da solo raccoglie circa il 70% delle convalide, seguito da industria, edilizia e, in misura molto marginale, agricoltura.

L’approfondimento settoriale rivela come il commercio, la sanità e la ristorazione costituiscano gli ambiti prevalenti di abbandono per le lavoratrici madri. Al contrario, i padri risultano più presenti nel manifatturiero e nei servizi alle imprese. In particolare, la sanità mostra una schiacciante predominanza femminile (oltre il 90%), mentre nella ristorazione, nonostante l’apparente parità occupazionale, il divario nelle convalide è marcato.

In sintesi, l’identikit del soggetto-tipo che richiede la convalida nel biennio in esame restituisce il profilo di una donna italiana, tra i 30 e i 44 anni, con un figlio di età inferiore a un anno, impiegata nel settore terziario, con un’anzianità di servizio inferiore ai 3 anni. Un profilo emblematico, che denuncia la persistente fragilità dell’architettura delle politiche di conciliazione e la resistenza di un modello culturale ancora fortemente sbilanciato sulle donne.

La lettura congiunta dei dati evidenzia dunque l’urgenza di un ripensamento sistemico, che promuova un’effettiva equità nelle dinamiche di permanenza e uscita dal lavoro, attraverso strumenti normativi e organizzativi che sappiano sostenere, in modo paritetico, la genitorialità di entrambi i sessi.

Imposta di bollo su polizze vita, ruolo degli intermediari finanziari

Con la circolare 4.06.2025, n. 7/E l’Agenzia delle Entrate ha chiarito le novità introdotte dalla legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) sull’imposta di bollo applicabile alle comunicazioni relative ai contratti di assicurazione sulla vita, con effetti per le imprese assicurative, i sottoscrittori e gli operatori finanziari.

Con la legge di Bilancio 2025 è stato superato il precedente regime, che prevedeva il pagamento dell’imposta esclusivamente al momento del riscatto o del rimborso della polizza. Infatti, a partire dal 1.01.2025, l’imposta di bollo dovuta sui prodotti assicurativi dei rami vita III (polizze indicizzate a fondi interni o altri parametri) e V (polizze di capitalizzazione) deve essere versata annualmente dalle compagnie assicurative.

L’ammontare dell’imposta, confermata nella misura del 2 per mille sul valore di mercato, dovrà essere versata annualmente e potrà essere dedotto dalla prestazione erogata alla scadenza o al momento del riscatto.

CPB e imposta sostitutiva sul maggior reddito: un esempio di calcolo

L’imposta sostitutiva è graduata (con aliquota che varia dal 10% al 15%) sulla base del livello di affidabilità fiscale, ossia il punteggio ISA del periodo precedente a quelli oggetto di concordato. Al riguardo, si propone un esempio di calcolo, ipotizzando il caso di un contribuente con un punteggio di affidabilità pari a 9 e che dichiara, per il periodo d’imposta 2024, un reddito d’impresa pari a 50.000 euro.

Al fine di individuare il reddito da prendere a base della proposta di CPB per i periodi d’imposta 2025 e 2026, il reddito di 50.000 euro deve essere assunto al netto del saldo tra le plusvalenze, le sopravvenienze attive, le minusvalenze, le sopravvenienze passive, le perdite su crediti, il costo del lavoro (maxi-deduzione), nonché gli utili e le perdite considerati nel loro importo fiscalmente rilevante.

Si ipotizzi anche che il risultato di tale operazione si traduca in un reddito di 48.000 euro per il periodo d’imposta 2024, a fronte del quale è proposto un reddito da concordare per il periodo d’imposta 2025 di 49.500 euro e, per il periodo d’imposta 2026, di 52.000 euro.

Cassazione: illegittimo il Tfr in busta paga ogni mese

È legittima, come sentenziato dalla Corte d’appello di Bologna, l’anticipazione del trattamento di fine rapporto (Tfr) corrisposta mensilmente in busta paga ai lavoratori, sulla base di un accordo contenuto nel contratto di lavoro? Secondo la Corte territoriale, “l’autonomia negoziale privata aveva la possibilità di pattuire un regime dell’anticipazione del Tfr più favorevole per le parti rispetto a quello legale”; di parere contrario l’Inps, che infatti ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, che si è espressa con la sentenza 20.05.2025, n. 13525.

In essa si legge che “contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, è da escludere che le condizioni di maggior favore che il patto individuale del contratto di lavoro può introdurre al regime legale di anticipazione del Tfr, ai sensi dell’art. 2120, ultimo comma c.c., possano concretarsi in un’anticipazione mensile del Tfr non sostenuta da alcuna specifica causale”.

Lo schema legale dell’anticipazione del Tfr, infatti, deve essere improntato su alcuni presupposti: necessità causali tipiche per l’anticipazione; regola dell’una tantum, per cui l’anticipazione è possibile una sola volta; importo massimo di anticipazione (70%); tetto minimo di anzianità lavorativa (8 anni di servizio); tetto massimo di richieste che il datore può accordare (10% degli aventi diritto ogni anno, 4% del totale dei dipendenti); condizioni, queste, previste dall’art. 2120, cc. 6 e 9 c.c.

Bonus giovani: da luglio 2025 incremento occupazionale netto

In merito ai requisiti del Bonus giovani, viene richiamata la pubblicazione del 9.05.2025, nel sito Internet del Ministero del Lavoro, del D.M. 11.04.2025, che ha definito i criteri e le modalità attuative dell’esonero contributivo c.d. Bonus giovani di cui all’art. 22 D.L. 60/2024, convertito, con modificazioni, dalla L. 95/2024 (decreto Coesione), che ha dato luogo all’emanazione, da parte dell’Inps, della circolare n. 90/2025 con la quale sono state fornite indicazioni per la gestione dei connessi adempimenti previdenziali relativi alle fattispecie di esonero, come previste dall’art. 22, cc. 1 e 3.


In particolare, è da ricordare che la misura dell’incentivo di cui all’art. 22, c. 1 del decreto Coesione è pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail, nel limite massimo di importo pari a 500 euro mensili per ciascun lavoratore e, comunque, nei limiti di spesa autorizzata ai sensi del successivo comma 7 e nel rispetto delle procedure, dei vincoli territoriali e dei criteri di ammissibilità previsti dal Programma nazionale giovani, donne e lavoro 2021-2027.

Impossibilità di funzionamento dell’assemblea e nomina dei liquidatori

L’art. 2484 c.c., rubricato “Cause di scioglimento”, stabilisce le ragioni per cui una società di capitali può cessare. Le cause principali includono il decorso del termine, il raggiungimento o l’impossibilità di raggiungere l’oggetto sociale, l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea, la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale e altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto.

Lo scioglimento non comporta l’estinzione immediata della società, ma l’avvio della procedura di liquidazione del patrimonio sociale.

Sul punto, il meccanismo codicistico è bifasico. Nel senso che, a una prima fase, in cui si verifica lo scioglimento della società, segue la nomina del liquidatore. Dal punto di vista topografico, la distinzione si pone fra le norme di cui agli artt. 2484-2486 c.c. e le successive norme di cui agli artt. 2487 c.c., che regolano la nomina del liquidatore.

P

Incubatori e acceleratori certificati

È stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale 20.06.2025, n. 141, il D.M. Imprese-Economia 26.05.2025, recante “Disposizioni applicative per l’attribuzione agli incubatori e agli acceleratori certificati del contributo, sotto forma di credito d’imposta”.

Dotazione economica – Il contributo è concesso nel limite di spesa complessivo di 1,8 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2025, al netto delle somme spettanti al soggetto gestore – Invitalia (artt. 3 e 7).

Soggetti beneficiari – Possono beneficiare del contributo, sotto forma di credito d’imposta, gli incubatori e gli acceleratori certificati (ossia soggetti che supportano in fase iniziale o successiva lo sviluppo delle start-up, iscritti in una sezione speciale del Registro delle imprese) che alla data di presentazione della presentazione dell’istanza:

– sono regolarmente costituiti e iscritti e attivi nell’apposita sezione speciale del Registro delle Imprese;

– non sono sottoposti a procedure concorsuali con finalità liquidatorie;

– non sono destinatari di sanzioni interdittive e non si trovano in altre condizioni previste dalla legge come causa di incapacità a beneficiare di agevolazioni finanziarie pubbliche (art. 4).

Ccnl Tessili ed affini Pmi: le scadenze di giugno

Con il cedolino di paga di giugno 2025 spettano ai lavoratori aventi diritto, cui viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro Tessili ed affini Pmi, un elemento perequativo e un elemento di garanzia retributiva (E.G.R.).

Elemento perequativo – Nelle aziende che non hanno una contrattazione aziendale per premi di partecipazione, a decorrere dall’anno 2020 sarà corrisposto a tutti i dipendenti in forza nel mese di erogazione, un elemento retributivo pari a 110 euro con la retribuzione di giugno di ogni anno.

Tale importo, comprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il Tfr, viene corrisposto per intero ai lavoratori in forza dal 1.01 al 31.12 e proporzionalmente ridotto in dodicesimi in caso di minor servizio nel periodo di riferimento o di rapporti di lavoro a tempo parziale.

Nel caso in cui ci siano accordi aziendali che prevedono erogazioni di importi inferiori a 110 euro dovrà essere corrisposta un’integrazione fino alla cifra concordata.

Elemento garanzia retributiva – A favore dei lavoratori in forza al 1.01, dipendenti da aziende prive di contrattazione aziendale, che non percepiscono altri trattamenti economici individuali o collettivi, oltre a quanto spettante dal Ccnl, viene riconosciuto un elemento di garanzia retributiva (E.G.R.) pari a 240 euro dal 1.01.2017 uguale per tutti i lavoratori.

C.F e P.IVA: 01392340202 · Reg.Imp. di Mantova: n. 01392340202 · Capitale sociale € 210.400 i.v. · Codice destinatario: M5UXCR1

© 2025 Tutti i diritti riservati · Centro Studi Castelli Srl · Privacy · Cookie · Credits