L’art. 79 del CTS ruota intorno a due punti fondamentali: stabilire la natura delle attività di interesse generale; stabilire la natura dell’ente.
Il primo aspetto da dirimere è la distinzione delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del CTS in commerciali e non commerciali.
Per tutti gli ETS, diversi dalle imprese sociali, l’art. 79, c. 2 del CTS chiarisce a quali condizioni le attività di interesse generale si considerano di natura non commerciale:
– le attività sono svolte a titolo gratuito;
– la somma tra il corrispettivo (proveniente dall’utente o da terzi) e i contributi non potrà superare i costi effettivi, intendendosi per questi ultimi sia i costi diretti che quelli indiretti afferenti alla specifica attività (Relazione illustrativa al Decreto).
Nell’ipotesi di svolgimento di diverse attività, continua la Relazione illustrativa, riconducibili all’art. 5, i costi indiretti effettivamente sostenuti dovranno assegnarsi a ciascuna di queste in misura proporzionale al fine di consentire la valutazione in merito alla tipologia di attività svolta, se, dunque, di natura commerciale o non commerciale.
A questo punto, c’è anche da chiedersi, a beneficio degli enti che esercitano 2 o più attività di interesse generale di cui all’art. 5, se i calcoli per determinare la non commercialità dell’attività possono essere eseguiti, a scelta dell’ente, per singole attività, o per la totalità delle stesse.
Il Governo, accogliendo l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato (parere 19.07.2018, n. 00731), ha risposto negativamente alla richiesta formulata dalla I Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica, volta a far sì che: “qualora l’ente eserciti attività di interesse generale rientranti in diverse categorie di cui all’art. 5, le condizioni per la non commercialità dell’attività di cui al comma 2 possono riferirsi alla totalità delle stesse”.
La questione non è di poco conto. Non si può fare a meno di sottolineare, infatti, che il risultato del test di commercialità delle attività svolte, applicando l’una o l’altra metodologia di calcolo, può cambiare anche profondamente nel momento in cui, in base a una logica di compensazione alcune attività potrebbero essere tolte da una logica di imponibilità, essendo il risultato complessivo di segno negativo.
Osserviamo, peraltro, che non si può sottacere che, sotto il profilo fiscale, ciascuna attività di interesse generale può avere, di per sé, una modalità di gestione commerciale o non commerciale.
Tuttavia, sotto il profilo aziendale, tenuto conto dell’unitarietà della gestione, non sembra illogico pensare che la soluzione ideale sarebbe quella di lasciare la possibilità all’ente di operare tra i 2 sistemi di calcolo la scelta che ritengono più opportuna e conveniente in base alla propria particolare situazione. In questa direzione si sono verificati in Parlamento diversi tentativi di soluzione del problema (vedi, ad esempio, in occasione della discussione della legge di Bilancio 2022, l’emendamento Malpezzi-Fedeli) che, però non hanno avuto successo. A questo punto, si rende quanto mai necessaria un’interpretazione ufficiale dell’Amministrazione Finanziaria.
Da un punto di vista pratico, osserviamo anche che se il test di commercialità deve essere applicato per ogni attività di interesse generale esercitata, l’ente dovrebbe impostare un sistema di contabilità analitica, in modo da consentire la suddivisione dei costi tra le diverse attività di interesse generale, e di attribuire, con opportuni criteri di ripartizione i costi indiretti e quelli generali alle singole attività in questione, con tutti gli oneri amministrativi che ne conseguono.
Verso una sostenibilità aziendale realmente comunicabile: premesse, contenuti e metodo – Nel dibattito attuale sulla sostenibilità d’impresa è essenziale chiarire alcuni punti fermi:
– una PMI sostenibile non è un’azienda perfetta. La perfezione, in quanto irrealizzabile, è fuorviante, bensì un’organizzazione capace di generare crescita duratura, integrando sinergicamente la dimensione economica con gli impatti sociali e ambientali;
– la sostenibilità non è una moda recente, ma l’evoluzione strutturata di principi aziendali ben noti (e ancora troppo spesso trascurati), ora messi a sistema: governance solida, gestione del rischio, compliance normativa, rispetto delle persone, tutela dell’ambiente ed etica nel business;
– la sostenibilità va comunicata, legittimando il proprio impegno e coinvolgendo attivamente stakeholder chiave, tra cui banche e investitori, ben attenti a trasparenza, coerenza e tracciabilità delle informazioni;
– la comunicazione ESG è parte integrante di un più ampio sistema aziendale orientato allo sviluppo sostenibile e alla resilienza d’impresa.
Cosa e come comunicare: il nuovo linguaggio della fiducia – Non solo va raccontato ciò che si fa: è necessario misurarlo, documentarlo in modo verificabile e comunicarlo in modo strutturato.
Le controparti finanziarie vogliono sapere:
– quali sono gli impatti ambientali generati;
– come vengono gestiti i rischi sociali e reputazionali;
– qual è il livello di solidità della governance interna;
– quali strategie sono in atto per migliorare le performance ESG future.
Questa esigenza informativa è oggi bidirezionale.
Le banche devono rendicontare la sostenibilità dei propri portafogli (Green Asset Ratio, tassonomia europea) e gli investitori istituzionali, a loro volta, devono dare conto dell’impatto delle scelte finanziarie.
Gli operatori finanziari ricercano quindi dati ESG affidabili che solo aziende trasparenti possono offrire.
Le imprese, infine, hanno bisogno di strumenti per essere comprese e valorizzate in modo adeguato, anche oltre il risultato economico d’esercizio.
Metodo: verso una comunicazione continua – Comunicare efficacemente la sostenibilità significa:
– superare la logica del (solo) bilancio annuale, prediligendo un flusso informativo continuo e aggiornato;
– garantire frequenza e tempestività nella comunicazione dei dati;
– attivare canali diversificati e integrati (report sintetici, dashboard, incontri diretti, newsletter, ecc.);
– assicurare qualità, coerenza e tracciabilità delle informazioni;
– allineare i contenuti comunicati agli obiettivi di accesso al credito sostenibile.
Infrastruttura informativa e cultura del dato: la nuova frontiera della competitività – Per sostenere questa trasformazione servono:
– competenze specialistiche, interne ed esterne, capaci di tradurre la sostenibilità in termini finanziari e strategici;
– processi strutturati di raccolta, validazione e aggiornamento dei dati, integrati con i sistemi gestionali e amministrativi;
– una cultura aziendale della sostenibilità, evoluta e diffusa.
Non è più sufficiente compilare checklist o adottare modelli standard. Serve un sistema informativo credibile, verificabile e utile, che trasformi la sostenibilità in leva di posizionamento e dialogo con il mondo finanziario.
Nel terzo articolo della serie, analizzeremo la valenza predittiva dei dati ESG e il loro collegamento con un sistema di Enterprise Risk Management efficace, tematiche di rilevante interesse per l’intero sistema finanziario.
“Ce la farò ad ottenere ciò che desidero? Sarà un accordo equo? O rischio di danneggiare una relazione? Sarò troppo aggressivo? Oppure, troppo accomodante?”
Se poi in questa situazione ti trovi con le mani sudate e il cuore che batte all’impazzata, ecco che anche il tuo “non verbale” aggiungerà ulteriore tensione ed ansia.
Innanzitutto, potrebbe esserti utile sapere che non sei solo, molti di noi professionisti si sentono spesso ansiosi nel corso della vita quotidiana. Che ci crediate o no, attività banali e di basso livello come stilare una lista di cose da fare, guidare per andare al lavoro o parlare con gli altri possono rendere nervosi anche adulti intelligenti e sani. Dato che anche piccoli fattori scatenanti possono generare ansia, è comprensibile che la maggior parte delle persone si senta nervosa in situazioni di forte pressione e di performance professionale, come negoziare e concludere un accordo.
Gli esperti affermano che l’ansia è l’ emozione più comunemente sperimentata prima di una trattativa, ancor più di eccitazione, tristezza, calma o rabbia.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 19.04.2025, n. 10381, è tornata a pronunciarsi sull’accertamento bancario ribadendo, in ordine alla prova indiziaria ritraibile dai prelievi risultanti dai conti correnti, la non assimilazione delle imprese che prestano essenzialmente servizi, con modesto apparato organizzativo e con scritture contabili anche estremamente semplificate, ai lavoratori autonomi, nei confronti dei quali, invece, ogni supporto di prova è precluso in virtù della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014. Per il giudice di Cassazione, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 228/2014, affrontando la questione della legittimità costituzionale della presunzione legale di maggior reddito, di cui all’art 32, c. 1, n. 2 D.P.R. 600/1973, desumibile oltre che dai versamenti, anche dai prelevamenti ingiustificati dai conti correnti, ne avrebbe escluso la ragionevolezza, alla luce dei parametri costituzionali, limitatamente alla categoria dei lavoratori autonomi.
Pur riconoscendo, per certi versi, l’affinità fra imprenditore e lavoratore autonomo, la Corte delle leggi, avrebbe ritenuto “arbitraria” l’equiparazione fra le due figure, operata dalla norma in questione, sotto il profilo dell’omogeneità di trattamento in ordine al significato del prelevamento dal conto bancario, come indice di costo a sua volta produttivo di ricavo.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta all’interpello 29.04.2025, n. 121, ha fornito importanti chiarimenti in merito alla possibilità di includere nella liquidazione Iva di gruppo una società beneficiaria neocostituita a seguito di un’operazione di scissione parziale proporzionale, derogando al requisito temporale del controllo previsto dalla normativa.
Quadro normativo e ratio della disciplina – La liquidazione dell’Iva di gruppo, disciplinata dall’art. 73, ultimo comma D.P.R. 633/1972 e dal D.M. 13.12.1979 (modificato dal D.M. 13.02.2017), consente alle società legate da rapporti di controllo di procedere alla liquidazione periodica dell’Iva in maniera unitaria, compensando debiti e crediti risultanti dalle liquidazioni di tutte le società partecipanti.
L’art. 2, c. 1 D.M. 13.12.1979 stabilisce che possono partecipare alla liquidazione Iva di gruppo le società le cui azioni o quote sono possedute dall’ente o società controllante per una percentuale superiore al 50% del loro capitale, “almeno dal 1.07 dell’anno solare precedente” a quello di accesso alla procedura.
Il caso esaminato: scissione parziale e continuità del controllo – Nel caso oggetto della risposta n. 121/2025, una società capogruppo (Alfa) controllava all’80% una società (Beta) partecipante alla liquidazione Iva di gruppo. Beta ha effettuato una scissione parziale proporzionale, trasferendo parte del proprio patrimonio a una società beneficiaria di nuova costituzione (Gamma). All’esito dell’operazione, entrambe le società risultavano controllate dalla capogruppo con una partecipazione pari all’80%.
Con l’entrata in vigore del decreto Sicurezza il 12.04.2025, si apre una nuova fase per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Il decreto, infatti, amplia la platea dei soggetti beneficiari degli sgravi contributivi, estendendoli alle aziende che impiegano lavoratori detenuti in attività esterne agli istituti penitenziari.
Un passo significativo, che rafforza il binomio tra inclusione sociale e impresa. L’art. 35 D.L. 48/2025 modifica l’art. 4 L. 381/1991, permettendo ora anche ad aziende pubbliche e private, non solo alle cooperative sociali, di godere di uno sgravio del 95% sui contributi complessivi (fatto salvo lo 0,30% destinato alla formazione). La misura si applica sia a detenuti e internati ammessi al lavoro esterno, sia a quelli che operano all’interno degli istituti.
I rapporti agevolabili includono forme contrattuali flessibili: contratto subordinato a tempo indeterminato o determinato, apprendistato, somministrazione e lavoro intermittente. È previsto che il beneficio si estenda per tutta la durata della detenzione e, successivamente, per 18 o 24 mesi a seconda della tipologia di impiego e del percorso riabilitativo del detenuto.
L’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi del credito d’imposta per imposte estere non determina la decadenza dal diritto alla detrazione, ma è possibile far valere il credito entro l’ordinario termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 2946 c.c.
Nel caso esaminato un contribuente (persona fisica) aveva prodotto redditi in uno Stato estero (non indicato nel provvedimento) negli anni 2009, 2010, 2011 e 2013, senza dichiararli tempestivamente nelle rispettive annualità. Solo successivamente (ovvero nella dichiarazione dei redditi per il 2014) il credito d’imposta maturato nei periodi pregressi veniva scomputato.
Ritenendo irregolare questo comportamento, l’Agenzia delle Entrate procedeva a rettificare la dichiarazione (ex art. 36-bis D.P.R. 600/1973) con conseguente emissione della relativa cartella di pagamento. Il giudizio di primo grado si concludeva con esito favorevole per l’Amministrazione Finanziaria, mentre in appello il contribuente otteneva il riconoscimento delle proprie ragioni. La questione approdava, infine, in sede di legittimità. La problematica giuridica affrontata riguarda l’interpretazione dell’art. 165, c. 4 del Tuir, secondo cui la detrazione delle imposte estere deve essere effettuata nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il reddito estero è stato prodotto.
Coerentemente con questa previsione, nel caso specifico era necessario chiarire se la mancata indicazione del credito d’imposta nella dichiarazione “di competenza” potesse determinare la perdita del diritto alla detrazione. Sulla questione, la Suprema Corte ha risposto negativamente, motivando la propria decisione su 3 principali direttrici, ovvero:
1) l’interpretazione sistematica dell’art. 165 del Tuir (l’obbligo di imputare la detrazione alle imposte dovute per l’anno di produzione del reddito estero riguarda esclusivamente il calcolo del credito, senza che da esso derivi, in caso di omissione, una sanzione di decadenza automatica. L’ordinanza richiama l’ordinario termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 2946 c.c. per i diritti di credito);
2) l’assenza di una clausola esplicita di decadenza (la Cassazione sottolinea che l’attuale art. 165 del Tuir non contempla un’ipotesi di decadenza. A conferma vengono ricordate le sentenze nn. 28801/2024 e 24205/2024, nelle quali è stato affermato che né l’omessa dichiarazione né l’omessa indicazione specifica del reddito estero possono comportare la perdita del beneficio fiscale);
3) principi internazionali e convenzionali (viene incidentalmente richiamato il principio di eliminazione della doppia imposizione, cui l’Italia è vincolata tramite le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. L’ordinanza richiama, seppur brevemente, il concetto di “obbligo internazionale incondizionato” volto a garantire il corretto scomputo delle imposte estere, indipendentemente dalle formalità dichiarative interne).
L’ordinanza in commento si inserisce in un filone interpretativo volto a privilegiare una lettura sostanzialistica dei diritti dei contribuenti avendo riconosciuto che, in assenza di una previsione normativa specifica di decadenza, il diritto alla detrazione delle imposte pagate all’estero conserva validità per l’intero periodo di prescrizione decennale. Pertanto, la detrazione può essere richiesta anche tardivamente, purché il contribuente sia in grado di dimostrare il pagamento delle imposte estere e il collegamento con il reddito prodotto. Questa interpretazione è perfettamente coerente con i principi generali di diritto tributario (primato della sostanza sulla forma), e potrà essere fatta valere in tutte le situazioni in cui (come purtroppo ancora oggi accade) l’Amministrazione Finanziaria si dimostri restia a riconoscere la spettanza del credito d’imposta estero a fronte di irregolarità meramente formali pur in contesti in cui non è dubbia l’esistenza dei fatti generatori del credito stesso.
Nonostante i progressi sul fronte della prevenzione e la diffusione di nuove tecnologie, l’agricoltura si conferma tra i settori più pericolosi per la salute e la sicurezza dei lavoratori. A ricordarlo è l’ultimo numero del periodico Dati Inail, a cura della Consulenza statistico attuariale dell’Istituto, che analizza l’andamento degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali nel quinquennio 2019-2023, ultimo periodo consolidato disponibile alla data del 31.10.2024.
Nel 2023 le denunce di infortunio presentate all’Inail per la gestione Agricoltura sono state 26.546, un dato stabile rispetto all’anno precedente ma in calo del 19,7% rispetto al 2019, quando se ne contarono oltre 33.000. Anche i casi mortali mostrano una flessione: dai 171 del 2019 si è scesi ai 138 del 2023, segnando una riduzione del 19,3%.
Un’analisi più dettagliata rivela che il calo degli infortuni è attribuibile in larga parte a quelli occorsi “in occasione di lavoro” (-20,3%), mentre gli infortuni “in itinere”, più rari in agricoltura per la frequente coincidenza tra luogo di vita e di lavoro, rappresentano solo il 6% del totale.
Il raffronto con i dati Istat sull’occupazione evidenzia un decremento degli occupati nel settore (-2,8% nel 2023), ma la diminuzione degli incidenti supera quella degli addetti, con un tasso di infortuni sceso da 22,5 ogni mille unità lavorative annue (ula) nel 2019 a 18,5 nel 2023. I decessi passano da 0,097 a 0,070 ogni mille ula, segno di un miglioramento dell’efficacia delle misure di prevenzione, sebbene resti elevata la pericolosità intrinseca del comparto.
A livello territoriale, quasi la metà degli infortuni del 2023 accertati positivamente si concentra nel Nord Italia (46%), mentre al Sud si osserva un’incidenza più elevata dei casi mortali (40%). Il Centro si attesta rispettivamente al 20% e al 14%. Degna di nota anche la componente di infortunati stranieri, pari al 19% del totale.
Sul fronte demografico, l’età media degli infortunati in agricoltura è più alta rispetto ad altri settori (49 anni contro i 43 dell’Industria e servizi), con un’incidenza significativa degli over 64: il 14% sul totale degli infortunati e il 40% tra i decessi. Questo dato è collegato alla forte presenza di lavoratori autonomi, più propensi a prolungare l’attività oltre l’età pensionabile, e a una minore aderenza alle norme di prevenzione.
Tra le principali cause di infortunio grave e mortale spicca il ribaltamento dei trattori, fenomeno ancora frequente a causa dell’utilizzo di macchinari obsoleti, privi di dispositivi di sicurezza come ROPS e cinture. Per contrastare questo rischio, l’Inail ha dedicato un asse del Bando ISI all’ammodernamento del parco mezzi, con incentivi a fondo perduto destinati alle micro e piccole imprese agricole.
Altro rischio trascurato è quello legato agli incendi, causati dalla presenza di materiali combustibili e da fenomeni di autocombustione, spesso innescati in ambienti scarsamente ventilati. Depositi, rimesse e fienili rappresentano ambienti critici, in cui è essenziale predisporre misure di prevenzione attiva e passiva.
Il report Inail approfondisce anche il tema delle malattie professionali, in aumento del 14,7% rispetto al 2022, con 11.483 denunce nel 2023. La maggior parte riguarda il sistema muscolo-scheletrico (78,1%), in particolare disturbi dei tessuti molli e dorsopatie. Seguono le patologie neurologiche (13,2%) e dell’udito (5,4%). A livello geografico, il Mezzogiorno concentra il 49% dei casi, con la Puglia in testa (17%), seguita da Toscana, Emilia-Romagna e Sardegna.
Il quadro delineato da Inail conferma i progressi compiuti in termini di prevenzione, ma evidenzia anche quanto resti ancora da fare per rendere il lavoro nei campi davvero sicuro. Un obiettivo che richiede investimenti strutturali, vigilanza, formazione e un’efficace rete di protezione per lavoratori spesso invisibili ma essenziali per l’economia nazionale.
L’Agenzia delle Entrate, tornando a riesumare l’istituto del cd. incasso giuridico con la risposta all’istanza d’interpello n. 59/2025, ha ritenuto di rappresentare “Al riguardo, la risoluzione 13.10.2017, n. 124/E ha chiarito che con l’introduzione dell’art. 88, c. 4-bis del Tuir, viene riformato il regime fiscale Ires delle rinunce a crediti da parte dei soci, riconducendolo a unità, a prescindere dalla modalità con cui l’operazione viene formalmente svolta, nonché dai principi contabili utilizzati dai soggetti coinvolti”.
Nella medesima risoluzione, si è inoltre precisato che, dal momento che si è in presenza di crediti dovuti a persone fisiche non esercenti un’attività di impresa e che non è pertanto ravvisabile alcuna differenza tra il valore fiscale dei crediti rinunciati e il loro valore nominale, la società partecipata non dovrà tassare alcuna sopravvenienza attiva ai sensi dell’art. 88, c. 4-bis del Tuir, non potendosi verificare quelle distorsioni dovute appunto alla mancata coincidenza tra il valore nominale dei crediti e il loro valore fiscale che il legislatore ha inteso scongiurare e che sono ravvisabili solo in presenza di un’attività d’impresa.
Con la sentenza n. 38161/2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell’abuso del superbonus e sulla generazione fraudolenta di crediti fiscali tramite fatture per operazioni inesistenti. Tali condotte, evidenzia la Suprema Corte, possono integrare i reati di emissione di fatture false e indebita compensazione, realizzando un danno tanto per l’Erario quanto per gli istituti bancari cessionari dei crediti.
Nel caso in esame, alcuni contribuenti avevano impugnato la decisione per le misure cautelari reali del Tribunale competente, che aveva accolto il ricorso del Pubblico Ministero, disponendo il sequestro preventivo impeditivo nei confronti di società coinvolte in operazioni edilizie agevolate, respingendo però la misura ablativa finalizzata alla confisca. Il giudizio ha offerto l’occasione per chiarire i presupposti giuridici e probatori del sequestro impeditivo ex art. 321, c. 1, c.p.p., e la nozione di “pertinenza al reato” in ambito di reati tributari.
Il cuore del sistema illecito risiede nella presentazione di fatture per lavori mai eseguiti, finalizzate a generare crediti d’imposta cedibili e monetizzabili, in violazione delle condizioni poste dal D.L. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio). La Cassazione, già con la sentenza n. 42012/2022, aveva chiarito che i benefici fiscali sono subordinati all’effettiva esecuzione degli interventi edilizi nei tempi e nei modi previsti dai titoli abilitativi.