Lettera del direttore · 

20 Ottobre 2025

Divari

Non è mai conveniente uno sviluppo poco armonico dell’economia di un Paese poi-ché, nel medio e lungo periodo, potrebbe causare squilibri che trascinano problemi sociali, instabilità e crisi. È il pensiero che immediatamente si è formato leggendo sui giornali una serie di interventi, tutti ben documentati, sulla distanza, sempre più marcata, tra gli incrementi della redditività di (certe) aziende e il reddito dipendente. Dal 2020 (periodo Covid) l’Italia ha conosciuto una crescita economica stimata nel 16,6%, più del 12,3% registrato in tutta l’area Euro.

In parallelo, la BCE sti-ma un calo del potere di acquisto dei salari del 5,8% dal 2021, collocando l’Italia all’ultimo posto in Europa. L‘OCSE ha stimato un calo dei salari reali del 7,5%. Sono valori che, tenuto conto di diversi metodi di calcolo e dei periodi di riferimento, sembrano raccontare una realtà preoccupante per i 16,5 milioni di lavora-tori dipendenti. Tanto più che l’inflazione riferita ai prodotti di base, soprattutto alimentari, cioè quelli che maggiormente incidono sulla busta paga, mostra valori superiori alla media generale, riducendo quindi le quote destinate ad altri beni o al risparmio. Gli estensori degli articoli si chiedono chi siano gli assi pigliatutto di una crescita di ricchezza apprezzabile che non riescono, però, ad armonizzare profitti e redditi da lavoro, creando discrepanze preoccupanti oltre che ingiuste. Alcuni settori, non particolarmente performanti, sono riusciti a mantenere i salari in linea con i profitti: sono l’auto, le costruzioni, il tessile, l’elettronica, la metallurgia. Indicate come “creatrici di differenza” sono le banche e l’ultimo Rapporto Medio-banca segnala le società a controllo pubblico, come quelle in cui i salari non sono riusciti a seguire i notevoli aumenti di profitti di cui hanno potuto beneficiare gli azionisti (tra cui il Tesoro) e il management pubblico.

Il rapporto stima un margine operativo delle società controllate pubbliche passato dal 4,5% del 2022 al 9,5% del 2024. Le società private di tutti i settori registrano un 5%.Il pensiero iniziale, di preoccupazione per eventuali esiti negativi dell’incremento del divario retributivo in sede di economia, non sembra portare, almeno per ora, a grandi rivendicazioni. Forse si è tutti presi da situazioni ben più gravi. Forse agiscono degli elementi di compensazione sotterranei o sconosciuti, che riescono a mitigare la sensazione di discesa verso ambiti di povertà. Forse ci sono le pensioni dei genitori che compensano salari iniziali insufficienti. C’è anche un percorso di fuga verso Paesi più generosi con le buste paga. E c’è la debolezza di molti lavoratori che escono dalle tutele classiche della dignità assicurata dalla nostra Costituzione.

C’è, in fondo, una questione di giustizia e un ambito etico che una comunità-Paese dovrebbe assicurare come garanzia di mantenimento dei meccanismi di autoconservazione, per prevenire pentole che bollono troppo in fretta e rischiano di spegnere o attutire la fiammella di una convivenza civile armonica. Soprattutto in periodi in cui le grida sovrastano i ragionamenti, dove i più forti, anche economicamente, sembrano avere mani libere sulle regole. Con una riflessione finale, sul rispetto delle regole: molti – anzi, troppi – ne hanno un concetto assai singolare. Sono convinti, infatti, che siano tenuti a tale rispetto solo gli altri.

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