Imposte dirette
15 Ottobre 2025
L’esclusione dei rimborsi spese dal reddito dei forfetari è ancora priva di un chiarimento ufficiale dell’Agenzia delle Entrate, mentre la dottrina si mostra tuttora divisa sull’effettiva applicabilità della nuova disciplina.
L’entrata in vigore del D.Lgs. 192/2024, in attuazione della legge delega per la riforma fiscale (L. 111/2023), ha introdotto, per i professionisti in regime ordinario, la non concorrenza al reddito delle somme percepite a titolo di rimborso delle spese sostenute nell’esecuzione di un incarico e addebitate analiticamente al committente (art. 54, c. 2, lett. b) del Tuir). Parallelamente, l’art. 54-ter prevede la correlativa indeducibilità in capo al prestatore. L’intervento legislativo ha così sterilizzato un meccanismo che, in precedenza, generava un doppio movimento contabile di segno opposto (imponibilità del rimborso e deducibilità della spesa) senza effetti reali sul reddito imponibile.
Il dubbio sorge con riferimento ai contribuenti in regime forfetario, per i quali l’art. 1, c. 64 L. 190/2014, non è stato modificato. In assenza di un rinvio espresso, il coordinamento tra il principio di onnicomprensività dei compensi e la determinazione forfetaria del reddito lascia irrisolta la questione della tassabilità dei rimborsi.
La dottrina si è divisa: un primo orientamento ritiene che per i forfetari la nuova esclusione non trovi applicazione, stante la natura presuntiva del reddito e l’impossibilità di verificare la “deduzione in capo al soggetto” prevista dall’art. 54-ter. Un secondo orientamento, più estensivo, auspica un’interpretazione omogenea per ragioni di equità fiscale, ritenendo illogico tassare un rimborso che, per gli ordinari, è fiscalmente neutro.
La relazione tecnica al decreto, tuttavia, non attribuisce effetti finanziari alla norma, indizio che il legislatore non ha inteso incidere sulla base imponibile dei forfetari. Di conseguenza, la prassi amministrativa continua a ritenere imponibili i rimborsi, salvo quelli qualificabili come spese anticipate in nome e per conto del cliente, documentate e intestate al medesimo. Tale impostazione è coerente con la risposta n. 428/2022 e con la circ. 5/E/2021, che, richiamando la circ. 58/E/2001, ribadiscono la non rilevanza ai fini del reddito delle somme anticipate ex art. 15 D.P.R. 633/1972.
L’esempio classico è quello dell’avvocato forfetario che versi un contributo unificato intestato al cliente: il relativo rimborso non genera reddito, purché sia indicato in fattura come “spesa anticipata in nome e per conto del cliente – art. 15 D.P.R. 633/72”. Diversamente, se lo stesso professionista estrae una visura camerale dell’assistito a proprio nome, il riaddebito al cliente costituirà compenso imponibile e concorrerà sia alla base reddituale sia al limite dei 85.000 euro per la permanenza nel regime.
La distinzione fra spese “anticipate” e spese “sostenute”in proprio resta, dunque, centrale ma non priva di criticità operative. In molti casi la dimostrazione del mandato “in nome” del cliente è impossibile, con conseguente possibile imposizione su somme prive di capacità reddituale. Tale rigidità formale genera effetti distorsivi e potenziali disparità rispetto ai contribuenti ordinari, ponendo dubbi di compatibilità con i principi di capacità contributiva e uguaglianza sostanziale sanciti dagli artt. 3 e 53 Cost.
Sul piano sistematico, la soluzione più coerente sarebbe l’integrazione dell’art. 1, c. 64 L. 190/2014, con un espresso richiamo al nuovo art. 54 del Tuir, così da uniformare la disciplina dei rimborsi e garantire neutralità fiscale tra regimi.
In attesa di un intervento chiarificatore, la prudenza suggerisce ai professionisti forfetari di limitare l’indicazione in fattura delle sole spese effettivamente anticipate in nome e per conto del cliente, correttamente documentate, riportando ogni altro rimborso come compenso. Solo in tal modo si evita il rischio di contestazioni e si assicura coerenza con i principi di neutralità fiscale e capacità contributiva, nel rispetto dei criteri di equità tra regimi.
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