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07 Luglio 2025

Il capo buono non comanda. Viene ignorato

C’è una domanda che mi viene fatta più volte durante i miei seminari: “È giusto essere amico/a dei propri dipendenti e collaboratori di studio?”

Ho l’abitudine di arrivare in aula almeno un’ora prima dell’evento: ho bisogno di confrontarmi con i tecnici di sala e verificare che tutto funzioni correttamente. Anche quel giorno, a Roma, giunsi prima del solito e rimasi sorpreso nel trovare già una signora in sala. Si avvicinò al mio tavolo e, presentandosi, mi spiegò di essere venuta in anticipo perché voleva parlarmi in forma riservata e chiedere un parere su una questione personale che la tormentava.

Era titolare di un noto studio tributario e si avvaleva di 10 collaboratrici, con le quali riuscì col tempo a instaurare un rapporto molto amichevole, annullando ogni forma di gerarchia. Aggiunse però che questa iniziale complicità, apparentemente positiva, si stava progressivamente trasformando in un vero incubo, che ormai non riusciva più a gestire. “Di cosa si tratta, concretamente?” le chiesi. “Vede, con le mie ragazze usciamo spesso insieme. Ci fermiamo a pranzare, parliamo di ogni cosa, non solo di lavoro. Ci vediamo anche fuori dall’orario d’ufficio e condividiamo molto della vita privata”. Dopo una breve pausa e un sospiro, aggiunse: “Il problema è che quello che sembrava un bel rapporto di amicizia e condivisione, ora sta degenerando, minando la disciplina e causando disfunzioni organizzative sempre più evidenti”. “Può essere più precisa?” replicai. “Non rispettano più gli orari di lavoro; se hanno bisogno di un permesso, se lo prendono senza avvisare; decidono autonomamente le ferie, e i loro impegni personali hanno la precedenza su quelli dello studio.

È come se stessero approfittando della situazione, e io non riesco più a ristabilire i confini. Forse è troppo tardi… ma vorrei capire se esiste una soluzione. È stato un errore, secondo lei, costruire un clima confidenziale all’interno dello studio? E oggi… si può ancora rimediare?”

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