IVA

12 Settembre 2025

Regime del reverse charge e operazioni soggettivamente inesistenti

La Cassazione ha stabilito che, in regime di reverse charge, non spetta la detrazione Iva al cessionario che indichi un fornitore fittizio, se ha commesso evasione o era consapevole della falsità senza provare l’effettivo fornitore Iva.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 4.09.2025, n. 25438, in ordine al regime dell’inversione contabile raccordato al caso di operazioni soggettivamente inesistenti, ha ritenuto che il diritto di detrazione dell’Iva relativa a un’operazione di cessione di beni non può essere riconosciuto al cessionario che sulla fattura emessa in applicazione di tale regime, abbia indicato un fornitore fittizio, quando alternativamente, il medesimo cessionario o abbia egli stesso commesso un’evasione dell’Iva, o sia anche solo semplicemente consapevole dell’indicazione in fattura di un fornitore fittizio e non abbia fornito la prova che il vero fornitore sia un soggetto passivo Iva. Tale principio si raccorda a quanto convenuto anche dal Giudice Europeo.

La Corte di Giustizia UE (causa C-281/20), che di recente si è espressa per la prima volta proprio sulla disciplina del reverse charge in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, ha stabilito che la direttiva n. 2006/112/CE (direttiva Iva), letta in combinazione con il principio della neutralità fiscale, dev’essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo va negato l’esercizio del diritto della detrazione dell’Iva, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso, nell’ambito dell’applicazione del regime dell’inversione contabile, qualora, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, o mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o è stato dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione di Iva. Inoltre, ha evidenziato come il fatto che il soggetto passivo che ha emesso la fattura vi abbia consapevolmente menzionato un fornitore fittizio costituisca un elemento rilevante, tale da rivelare che il soggetto passivo era cosciente di partecipare a una cessione di beni che si iscriveva in un’evasione dell’Iva (punto 53). Sul piano generale si deve considerare come l’esercizio del diritto alla detrazione dell’Iva vada negato se mancano i dati necessari per verificare che il fornitore del soggetto Iva che lo invoca abbia la qualità di soggetto passivo (in tal senso CGUE 9.12.2021).

In piena coerenza con quanto affermato dalla Corte di giustizia, l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, a cui presta continuità anche la sentenza in commento, è nel senso che l’Iva non è detraibile, qualora risulti solo l’apparente osservanza dei requisiti formali, ma manca la corrispondenza dell’operazione fatturata con quella in concreto effettuata e ciò anche nel caso di applicazione del regime dell’inversione contabile (Cass., 8.10.2022, n. 21677 e Cass., 9.04.2021, n. 9394). L’orientamento può dirsi pacifico ed è del tutto simile (sempre in ordine all’esame di fatture emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti) alla lettura che la Cassazione raccorda all’art. 21, c. 7 D.P.R. 633/1972, a mente del quale, come noto, se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare cartolare indicato, mentre non insorge il diritto alla detrazione dell’Iva in virtù del contesto patologico a cui si ascrive la fattura emessa.

Chi scrive, pur riconoscendo la necessità di prescrizioni di tutela nei confronti del Fisco allo scopo di non esporlo a pregiudizi criminosi, ritiene opinabile che a un obbligo di versamento di Iva non si accompagni un diritto della detrazione, almeno condizionato dall’assolvimento dell’Iva a debito, anche in conseguenza dell’azione di verifica. La dissociazione sostanziale di un’Iva a debito dalla corrispondente Iva a credito può aversi, nella dinamica impositiva di un tributo sui consumi, solo se la cd. Iva a debito riassume, per chiara connotazione legislativa, la natura di una sanzione impropria, ma non quando conserva l’autentica essenza di Iva. Tuttavia, il tema (che richiederebbe ben altro spazio per il suo completo sviluppo interpretativo) è un altro. La difesa erariale sulla portata prescrittiva dell’art. 21, c. 7 viene ordinariamente raccordata a una stringente esigenza di tutela dell’Erario, fondata sulla persuasione che nel caso di un piano criminoso di operazioni soggettivamente inesistenti (come il caso trattato dalla sentenza in questione), mentre chi emette la fattura non versa l’Iva, chi la riceve si avvantaggia della corrispondente detrazione, procurando così il pregiudizio fiscale. Tale rischio però non sussiste nel caso di applicazione del reverse charge con la riunione dei 2 status soggettivi di debitore e creditore dell’iva in capo ad un unico soggetto (del resto il ricorso, comunitariamente autorizzato, dell’inversione contabile ha proprio lo scopo di evitare il rischio del pregiudizio erariale), per cui non appare comprensibile la dissociazione tra Iva a debito e Iva a credito, se l’operazione non è portatrice di alcuna offensività per l’Erario.

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