Diritto del lavoro e legislazione sociale
15 Settembre 2025
La scelta tra mantenere il trattamento di fine rapporto in azienda o destinarlo a un fondo di previdenza complementare non è neutrale: impatta su possibilità di anticipo, tassazione e persino rendimenti futuri.
Molti commentatori parlano apertamente di “esproprio” della liquidazione, obbligata a confluire in un fondo pensione anziché restare in azienda. Una critica non infondata, se si considera che il trattamento di fine rapporto (Tfr) è nato come salario differito e non come forma di risparmio previdenziale. Ma, al di là della polemica, occorre chiedersi se questa scelta sia davvero penalizzante per il lavoratore o se, al contrario, apra nuove possibilità di pianificazione, soprattutto in chiave di pensione anticipata.
Rita come anticipo pensionistico – Tra gli strumenti più interessanti resi possibili dalla previdenza complementare c’è la Rendita integrativa temporanea anticipata (Rita), che di fatto rappresenta un canale di prepensionamento. Con la Rita, un lavoratore che abbia aderito da almeno 5 anni a un fondo pensione (e che possieda almeno 20 anni di contributi nella previdenza obbligatoria) può utilizzare il capitale accumulato per “accompagnarsi” alla pensione di vecchiaia. Normalmente, l’accesso scatta a 62 anni, ma la norma è più flessibile: chi si trova in inoccupazione da oltre 24 mesi e ha compiuto almeno 57 anni può attivarla con largo anticipo; in questo modo la Rita può coprire fino a 10 anni di reddito, consentendo un’uscita dal lavoro ben prima dei 67 anni richiesti dal sistema pubblico;
Attenzione, però, bisogna ricordarsi che la Rita non è una vera e propria pensione anticipata, ma consiste nell’erogazione frazionata del montante maturato presso il fondo pensione, sino al compimento dei 67 anni: montante che può essere composto, appunto, dal Tfr e dagli eventuali versamenti alla previdenza integrativa.