Amministrazione e bilancio
02 Ottobre 2025
Con l'ordinanza 4.09.2025, n. 24564 la Suprema Corte, analizzando un particolare caso operativo, offre la corretta interpretazione circa la liceità dei cd. controlli difensivi attuati dal datore di lavoro.
Il caso trattato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 24564/2025 riguarda la vicenda di un lavoratore il quale, considerato lo scarso rendimento rilevato dal datore di lavoro rispetto a figure similari operanti in azienda, era stato oggetto di uno specifico accertamento da parte di un’agenzia investigativa. Rilevati alcuni illeciti disciplinari, all’esito di una corretta procedura disciplinare ex art. 7 L. 300/1970, il lavoratore era stato licenziato.
Tra le varie contestazioni, promosse dal lavoratore fin dai gradi di merito, emerge quella relativa alla corretta effettuazione del controllo datoriale; secondo l’attore, infatti, l’azienda avrebbe agito, per il tramite dell’agenzia investigativa, in violazione delle disposizioni normative sui controlli datoriali, in specifico ove posti in essere da soggetti terzi ex artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori. Dal che discenderebbe l’inutilizzabilità del rapporto investigativo, posto alla base del recesso datoriale.
La Suprema Corte, analizzando tale doglianza, fa subito presente come “il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera” (cit., tra altre, Cass. n. 17004/2024; in precedenza Cass. n. 9167/2003). Approfondendo il caso, tuttavia, viene anche spiegato come la stessa Corte di Cassazione abbia avuto modo di chiarire, in alcuni suoi precedenti dettati dall’esigenza di garantire un’uniforme interpretazione normativa (Cass. nn. 25732/2021 e 34092/2021), un’interessante distinzione all’interno di quelli che vengono denominati controlli difensivi.
Al fine semplificativo sono state infatti indicate 2 distinte tipologie: i controlli “a difesa del patrimonio”, attuati secondo il disposto ex art. 4 L. 300/1970, che riguardano l’intera platea dei lavoratori i quali, durante l’attività lavorativa, entrano in contatto col patrimonio aziendale; i controlli difensivi “in senso stretto”, operabili anche sul singolo lavoratore, che sono attuati dopo che siano emersi concreti indizi a carico di un determinato soggetto ed al fine ultimo di rilevare eventuali condotte illecite.
Oltre la notevole importanza della distinzione sopra indicata, per il caso dei cd. controlli difensivi in senso stretto emerge, quale elemento di assoluta rilevanza, la condizione secondo la quale tale tipo di controllo, ai fini della sua liceità, sia effettuato in presenza di alcuni requisiti: deve infatti trattarsi di un controllo mirato, dunque non generico, scaturente peraltro ex post rispetto al fondato sospetto datoriale circa la sussistenza di un comportamento illecito da parte del lavoratore interessato.
Ciò emerge ancor più chiaramente dal fatto che, come stabilito in Cass. n. 18168/2023, il datore di lavoro risulta onerato in giudizio dal provare le specifiche situazioni sospette, in funzione delle quali è stato successivamente attivato il controllo difensivo. A quel punto spetterà al Giudice adito la valutazione di ogni circostanza posta alla sua attenzione.
Per il caso in esame risulta, peraltro, che già il Giudice di prime cure aveva evidenziato come “l’avvio dell’attività di controllo per mezzo dell’agenzia investigativa non è frutto di un’iniziativa arbitraria ed estemporanea del datore di lavoro, bensì è conseguenza delle incongruenze riscontrate nel rendimento specifico del dipendente”.
La Suprema Corte, rigettando quindi il ricorso del lavoratore, conclude che avendo il datore di lavoro maturato un preciso sospetto circa lo scarso rendimento del lavoratore, ponendo a confronto dati di produttività del soggetto comparati rispetto agli altri addetti alla stessa mansione, abbia attivato il controllo difensivo in modo lecito.
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